Le famigerate microplastiche, che troviamo disperse negli oceani di tutta la Terra, inquinano i nostri mari anche agendo da vettori di trasporto di inquinanti. Assorbono o rilasciano, infatti, sostanze tossiche come se fossero delle spugne. Proprio questa caratteristica, però, trova un’utile applicazione: possiamo usare le microplastiche come traccianti per il monitoraggio dell’inquinamento ambientale marino.
di Marina Locritani e Silvia Merlino
Negli ultimi tempi si è parlato tanto di inquinamento dei nostri mari ma spesso non ne sappiamo abbastanza: la plastica e la sua interazione con gli organismi che vivono il mare come tartarughe, delfini o uccelli marini, sono alcuni dei fatti macroscopici che colpiscono maggiormente il nostro immaginario. Tuttavia se ci accostiamo meglio al fenomeno, guardando a scale con dimensioni sempre più piccole, possiamo renderci conto che esitono inquinanti che non vediamo ad occhio nudo, ma che sono altrettanto pericolosi ed insidiosi. Di che sostanze si tratta? Come si spostano nell’ambiente? Da cosa derivano?
Tra questi sicuramente ci sono le microplastiche, che vengono rilasciate direttamente nell’ambiente sotto forma di piccole particelle e possono provenire dal risciacquo di prodotti di bellezza, dentifrici e alcuni prodotti per la casa (contenenti i cosiddetti microbeads) o dalla dispersione di microplastiche vergini (microplastiche di origine primaria). Questo tipo di microplastiche viene anche chiamato resin pellets (immagine di copertina) ed è costituita da granuli di circa 4 mm. Esistono inoltre le microplastiche cosiddette di origine secondaria, che si formano per la frammentazione di plastiche più grandi esposte alla luce solare (fotodegradazione) o all’azione degli agenti meteo-marini.
Di fianco a questo tipo di inquinanti nei mari e nei fiumi del nostro pianeta, sono presenti anche inquinanti organici persistenti (identificati con la sigla POPs, Persistent Organic Pollutants, solubili in solventi oleosi ma non in acqua). Questo tipo di inquinanti è costituito da sostanze chimiche molto resistenti alla decomposizione biologica, con il coseguente accumulo sia negli ecosistemi terrestri (alcuni rimangono presenti nel terreno fino a vent’anni prima di dimezzarsi) che in quelli acquatici, diventando pericolosi per la salute umana e ambientale. Ad esempio sono considerati POPs i policlorobifenili (PCB) e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). I PCB sono prodotti per usi commerciali, principalmente come fluidi dielettrici in condensatori e trasformatori, ma anche come ritardanti di fiamma, solventi dell’inchiostro, additivi per vernici e plastificanti. Gli IPA, derivati di combustione parziale di carbonio, sono prevalentemente provenienti da sorgenti antropiche come centrali termoelettriche a carbone. L’elevata affinità sia per i lipidi che per il materiale organico, fa si che possano accumularsi negli organismi viventi: ne sono stati rilevati residui in pesci, animali selvatici, nel latte e persino nel sangue umano.
Questi inquinanti si trovano in atmosfera, nell’aria e nell’acqua, circolano prevalentemente in superficie e si diffondono su scala globale. Il loro monitoraggio è molto importante poiché ci consente di mappare densità e flussi di sostanze altamente tossiche. Uno dei metodi con cui viene eseguito il monitoraggio di queste sostanze nei nostri mari prevede l’analisi di mitili, operazione complessa perchè la presenza di materiale lipidico nei tessuti viventi può interferire nelle fasi di estrazione degli inquinanti, inficiando i risultati.
Anche alcuni tipi di pellets (a seconda del materiale di cui sono composti) galleggiano sulla superficie marina, avendo una densità (0,88 – 0,96 g/cm³) minore di quella dell’acqua (0,997 g/cm³). Il galleggiamento e la loro tendenza ad interagire con oli e grassi (in gergo si dice che sono lipofilici) fa sì che questi materiali si comportino come “spugne” nei confronti degli inquinanti, assorbendoli o rilasciandoli a seconda delle caratteristiche ambientali in cui si trovano. Questo fenomeno ha due risvolti: uno negativo, in quanto i pellets possono diventare vettori di inquinanti da zone altamente antropizzate a zone remote del pianeta (come le regioni polari); e l’altro scientificamente interessante, è che possono essere utilizzati come traccianti del grado di inquinamento marino.
Sfruttando la caratteristica di assorbimento degli inquinanti da parte delle microplastiche, l’INGV (in collaborazione con il CNR-ISMAR e CNR-ICCOM, il Dipartimento di Chimica dell’Università di Pisa e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta) ha intrapreso, per la prima volta nel Mediterraneo, un esperimento innovativo per capire le dinamiche di assorbimento di inquinanti (IPA e PCB) in mare da parte dei pellets. L’esperimento, denominato CHEMPEL (CHEMistry of the PELlets), è parzialmente finanziato dal Ministero della Salute nell’ambito del progetto “La chimica e la genomica: una strategia sinergica per l’individuazione dei contaminanti associati alle microplastiche negli alimenti”. Lo scopo è quello di confrontare l’assorbimento delle microplastiche e dei mitili per capire se i primi possano essere più efficaci come traccianti di inquinamento rispetto ai mitili, che attualmente vengono usati per questo scopo. L’utilizzo delle microplastiche per questo tipo di analisi sarebbe vantaggiosa essendo i pellets utilizzabili in qualsiasi condizione ambientale e più facili e veloci da trattare ed analizzare rispetto ai mitili. Un loro possibile utilizzo come traccianti di inquinamento sarebbe quindi un vantaggio sotto molti punti di vista.
L’esperimento, avviato nel maggio 2019, con l’obiettivo di studiare l’evoluzione della degradazione dei pellets ed i meccanismi di assorbimento di pesticidi e POPs sia nei mitili (Mytilus galloprovincialis) che nei pellets, è tutt’ora in corso e si sta svolgendo all’interno del Golfo della Spezia in tre siti appositamente scelti: il pontile galleggiante delle Piscicoltura Portovenere SOC. AGR. A R.L. alle Grazie, il pontile fisso della Scaforimessa Majoli a Marina del Canaletto e la banchina fissa di cemento della Cooperativa dei Mitilicoltori spezzini di Santa Teresa (al di fuori delle zone specifiche di allevamento).
In ogni sito è stata posizionata una resta di mitili e tre gabbie in acciaio appositamente progettate e costruite per contenere, in due alloggiamenti separati, due diversi tipi di pellets (polietilene e polipropilene). Le tre gabbie sono state poste in tre posizioni diverse: una emersa, una galleggiante ed una immersa.
Da ogni gabbia sono stati prelevati circa 25 pellets con cadenza settimanale durante il primo mese. Lo scopo è stato quello di valutare fin dall’inizio le velocità di assorbimento delle due diverse tipologie di polimero nelle differenti collocazioni. Successivamente si è passati ad un prelievo con cadenza mensile. Analogamente sono stati prelevati anche campioni di acqua e dei mitili nelle tre postazioni. Entrambi, mitili e microplastiche, sono stati sottoposti ad analisi di laboratorio per poter confrontare l’assorbimento di inquinanti avvenuto da parte degli organismi viventi con quello verificatosi nelle plastiche.
Una sonda multiparametrica ha acquisito dati sulla temperatura, salinità, torbidità e pH delle acque nelle stesse date e siti di campionamento. Sono stati inoltre acquisiti, per tutto il periodo dell’esperimento, dati sulla piovosità e sull’irraggiamento, parametri riconosciuti fondamentali in letteratura per l’assorbimento/desorbimento da parte dei mitili.
Oltre ai risultati che riguardano le sostanze chimiche assorbite, sono anche state effettuate sulle microplastiche analisi spettroscopiche (ATR) e fisiche (porosità e colorazione superficiale) per definire le caratteristiche di degradazione del polimero e la sua influenza sull’assorbimento di inquinanti.
L’esperimento si concluderà a giugno del 2020, ma già al momento i dati sono sufficienti per trarre alcune interessanti considerazioni. I risultati dei primi mesi di esperimento evidenziano che le microplastiche di polietilene galleggianti assorbono maggiori quantità di inquinanti rispetto alle altre categorie studiate (equivalenti immersi e anche delle microplastiche di polipropilene, sia galleggianti che immersi). Questo fatto non era ancora stato dimostrato da esperimenti condotti in precedenza, perché non era stato fatto un confronto fra pellets galleggianti e pellets immersi. La spiegazione di questo risultato è legata al fatto che lo strato marino superficiale è quello più “ricco” di sostanze idrofobiche (che non si sciolgono in acqua), meno dense dell’acqua (come il petrolio) e che quindi si concentrano nello strato superficiale come dimostrato da studi precedenti. Lo studio, inoltre, ha evidenziato che i pellets sono dei traccianti più rapidi di eventuali aumenti di inquinamento dell’acqua rispetto ai mitili. Se posti in appositi contenitori e fissati in modo che non siano trasportati via dalle correnti, possono quindi sostituire i mitili come indicatori di sostanze tossiche, diventando così rilevatori veloci (e di elevata sensibilità) di inquinamento, utili a individuare tempestivamente situazioni critiche. E’ importante sottolineare che i valori di inquinanti misurati all’interno dei mitili non superano quelli consentiti dalla legge. I dati preliminari di questo progetto sono stati presentati a La Spezia l’8 e 9 Novembre 2019 al convegno SIRAM, la Società Italiana Ricerca Italiana alla Molluschicoltura. I dati raccolti sono anche stati il cuore di tre tesi di laurea all’Università di Pisa (Dipartimenti di Chimica e di Scienze Ambientali).