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Falso dentista, la sanzione del Fisco non duplica la condanna penale

I due processi hanno finalità diverse: il tributario tutela la corretta riscossione delle tasse, l’altro l’interesse pubblico all’esercizio delle professioni da parte di soggetti adeguatamente formati

Roma – Sono imponibili ai fini Iva le prestazioni rese da un odontoiatra “abusivo”; l’ufficio non deve invitare il contribuente, dopo il rilascio del processo verbale di constatazione; non può esservi violazione del ne bis in idem qualora il contribuente sia condannato in sede penale per reato non tributario e, a maggior ragione, non può esservi se la condanna avviene con decreto. Sono questi solo alcuni dei principi che si ricavano dalla lettura di un’ordinanza della Corte di cassazione particolarmente ricca di spunti, la n. 9076 del 1° aprile 2021.

Con l’ordinanza n. 9076/2021 la Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso di un contribuente, un odontoiatra che aveva esercitato la professione abusivamente (e per ciò aveva subito una condanna in sede penale), relativo a una sentenza che, in accoglimento dell’appello dell’ufficio, aveva dichiarato dovuta l’Iva sul reddito accertato.
La pronuncia tratta numerose questioni, ciascuna delle quali merita un’analisi specifica: il trattamento ai fini dell’Iva delle prestazioni rese da un medico “abusivo”; il rapporto tra contraddittorio preventivo e termine dilatorio di 60 giorni a seguito di rilascio del pvc; l’effetto espansivo interno, in riferimento alle sanzioni; il legittimo affidamento, in presenza di una condotta infedele; in tema di ne bis in idem, il rapporto tra la sanzione penale per un reato non tributario e la sanzione amministrativa e il rapporto tra i criteri di cui alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Edu), A. e B. contro Norvegia, e il decreto penale di condanna.

Con il primo motivo del ricorso, il contribuente ha tentato di far valere l’esenzione Iva prevista dall’articolo 10, n. 18, del Dpr n. 633/1972. La Corte, sul punto, ha richiamato il proprio consolidato orientamento secondo cui le prestazioni per cure mediche e paramediche sono esenti solo se effettuate da soggetti in possesso delle abilitazioni richieste.
Si tratta di interpretazione conforme all’articolo 132 della direttiva n. 2006/112/Ce, che obbliga gli Stati membri ad esentare “le prestazioni mediche effettuate nell’esercizio delle professioni mediche e paramediche quali sono definite dallo Stato membro interessato”. L’individuazione del requisito soggettivo è quindi rimessa alle legislazioni nazionali; sul punto il Dm 17 maggio 2002, emanato in attuazione del citato n. 18 dell’articolo10, include “gli esercenti la professione sanitaria di odontoiatra di cui alla legge 24 luglio 1985, n. 409”.
Pertanto, se l’iscrizione all’albo prevista in tale legge è requisito indispensabile per lo svolgimento della professione, essa è condicio sine qua non anche per l’esenzione.

La Corte si diffonde ampiamente sul secondo motivo di ricorso con il quale il contribuente, destinatario di processo verbale, ha lamentato non – come talvolta avviene – il mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, bensì l’omessa convocazione da parte dell’ufficio per un (ulteriore) momento di contraddittorio.
Si osserva, nella motivazione, che il contraddittorio è garantito proprio dal termine dilatorio per la presentazione di “osservazioni e richieste” e che l’atto “preteso” dal contribuente non è previsto da alcuna disposizione (e nemmeno dall’articolo 5-ter del Dlgs n. 218/1997 recentemente introdotto, che esclude l’invito obbligatorio proprio nei casi in cui sia stato rilasciato un pv.).
Richiamate le due più note sentenze della Corte di giustizia sulla questione del contraddittorio (la Kamino, C-129 e C-130/2014, e la Sopropé, C-349/2007), e dopo aver ricordato che spetta agli Stati membri definire le modalità procedurali con cui assicurare il rispetto dei principi garantiti dal diritto dell’Unione, la Cassazione afferma che, con la previsione dell’articolo 12, comma 7, della legge n.. 212/2000, il legislatore ha inteso disciplinare proprio il diritto al contraddittorio, nel rispetto dei principi di equivalenza (tra tributi armonizzati e interni) e di effettività.
In estrema sintesi può dirsi che, nei casi di accessi, ispezioni e verifiche, la tutela del diritto al contraddittorio si risolve nel rispetto del termine di 60 giorni concesso al contribuente.

Secondo il contribuente la Ctr, investita di un appello concernente soltanto l’imposta, non avrebbe potuto dichiarare dovute le sanzioni, a causa della la formazione di un giudicato interno.
La Corte respinge anche questo motivo, ricordando che l’appello dell’ufficio, nel giudizio riguardante l’impugnazione di un avviso di accertamento, non necessita di uno specifico e autonomo motivo sulle sanzioni, costituendo queste un’obbligazione accessoria a quella principale.
Non si tratta, a ben vedere, di una peculiarità del giudizio tributario, né tantomeno di un “privilegio processuale” dell’Amministrazione, ma di un’applicazione dell’effetto espansivo interno di cui all’articolo 336, comma 1, cpc: “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”. La sanzione “dipende” dall’imposta e, quindi, se non annullata per altri motivi (ad esempio, l’obiettiva incertezza), non può che seguire la stessa sorte.

Il contribuente ha tentato di far valere il “legittimo affidamento”, con la conseguente esenzione da sanzioni, riposto nella circolare n. 176/1999, poi “smentita” dalla circolare n. 76/2002 la quale ha preso atto dell’indirizzo della Corte suprema in merito all’imponibilità delle prestazioni dei professionisti medici “abusivi”.
La Cassazione ha buon gioco nel rilevare che il periodo d’imposta oggetto dell’accertamento è il 2009 e che, comunque, l’affidamento di un medico non iscritto all’albo non può mai essere “legittimo”, perché tale legittimità presuppone uno stato soggettivo di buona fede che invece deve essere esclusa.

Con un articolato ragionamento la Corte ha rigettato anche il motivo di ricorso con il quale il contribuente ha invocato gli effetti preclusivi della condanna subita in sede penale.
Dopo aver escluso che il divieto di bis in idem possa operare rispetto all’imposta (la quale, per definizione, non è una sanzione), la Corte osserva, sotto un primo profilo, che il ricorrente aveva subito condanna non per violazioni della normativa fiscale, ossia per uno dei reati puniti dal Dlgs n. 74/2000, bensì per l’esercizio abusivo della professione di odontoiatra (articolo 348 cp: “Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito […]”). Pertanto, poiché il processo penale ha tutelato l’interesse pubblico all’esercizio delle professioni da parte di soggetti adeguatamente formati, mentre il processo tributario tutela l’interesse alla corretta apprensione dei tributi, è da escludersi la violazione della Convenzione Edu.

Il profilo forse più interessante della pronuncia è, tuttavia, quello del rapporto tra la sentenza della Corte Edu A. e B. contro Norvegia, del 15 novembre 2016 e il decreto penale di condanna, procedimento speciale previsto dagli articoli. 459 e seguenti del cpp e applicabile qualora il pubblico ministero intenda chiedere al Gip la sola irrogazione di una pecuniaria, anche in sostituzione di una pena detentiva, e non vi sia opposizione da parte dell’imputato.
Sul punto, con la sentenza A e B, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il divieto del ne bis in idem, che impedisce l’irrogazione di una doppia sanzione di natura penale (quale può essere, a talune condizioni, quella tributaria), non viene in rilievo se tra i due procedimenti, penale e tributario, via sia una connessione sostanziale e temporale sufficiente (“sufficiently close connection in substance and time”). La “misura” della connessione sostanziale va ricercata caso per caso, con particolare riguardo alla finalità dei due procedimenti, alla prevedibilità dell’avvio di entrambi come conseguenza della condotta, alla duplicazione nella raccolta di prova e alla “compensazione”, all’atto dell’irrogazione della seconda sanzione, con quella già inflitta. Se la reazione punitiva dello Stato è “integrata” (“combined in an integrated manner so as to form a coherent whole”), i procedimenti non possono dirsi duplicati e la doppia sanzione può essere considerata legittima.

Nel caso in esame, osserva la Corte, non solo è rispettata la connessione temporale (l’avviso di accertamento è stato notificato nel febbraio 2013, il decreto penale nell’aprile 2010) ma, soprattutto, non vi è stata duplicazione nella raccolta delle prove. Il decreto penale, infatti, viene richiesto dal Pm e applicato dal giudice per le indagini preliminari (con il beneficio della sanzione sino alla metà del minimo edittale e con l’esclusione delle pene accessorie), sulla base delle risultanze delle indagini preliminari, senza alcuna ulteriore istruttoria: la pena è irrogata “allo stato degli atti, di fatto inaudita altera parte e ciò, secondo la Cassazione, consente di per sé di escludere ogni duplicazione.

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