La musicoterapeuta: “Ecco perché le canzoni fanno bene, ai pazienti e non”
Mariagrazia Baroni, presidente dell'Associazione italiana professionisti della musicoterapia, spiega i benefici delle canzoni per l'essere umano e come funziona il lavoro con i pazienti
ROMA – “Il bello della musica è che quando ti colpisce non senti dolore”. Così Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan. Sul rapporto tra musica e dolore è incentrata l’attività dell’Associazione italiana professionisti della musicoterapia. Raggiunta dalla Dire la presidente Aim, Mariagrazia Baroni, tiene a sottolineare che “parliamo di musica non soltanto per le persone malate e ricoverate, ma in generale per tutti coloro che possono trarre beneficio dalla musica. Se invece ci vogliamo soffermare nello specifico su interventi di musicoterapia, aggiungo che la musica porta aspetti sia sul versante personale che lavorativo, traendo beneficio su punti che hanno a che fare con gli aspetti emotivi, fisiologici, psicologici e spirituali delle persone. Da questo punto di vista il lavoro che proponiamo può essere indirizzato a seconda del bisogno della persona con cui entriamo in contatto”.
– Quale tipo di musica ha maggiore successo a livello terapeutico?
“L’aspetto fondamentale riguarda il fatto che la musica ha una risposta totalmente soggettiva. Non possiamo quindi parlare in generale del fatto che un determinato brano, a qualsiasi genere appartenga, possa avere un determinato effetto. Non possiamo avere una corrispondenza lineare. Si tratta, quindi, di offrire un intervento, una seduta di musicoterapia all’interno della quale la presenza del musicoterapeuta, la persona che abbiamo in cura e l’utilizzo della musica e dei parametri del suono siano una esperienza che conduce gradualmente alla risposta di bisogni specifici. Questi bisogni, normalmente, sono definiti in dialogo con altre figure professionali, poiché il musicoterapeuta lavora in équipe multidisciplinari, collaborando con il medico, l’infermiere, il neuropsichiatra, lo psicologo e l’insegnante di sostegno. A seconda dei contesti e all’interno di un piano personalizzato si possono poi definire i bisogni e offrire metodologie tecniche di intervento specifico per ottenere questi obiettivi”.
Dunque, continua Baroni, “parlare di una musica è riduttivo, ma è una modalità di intervento che può dare una risposta attraverso un processo in cui i brani musicali dell’ascolto seguono modalità ricettive. Ma anche attraverso il suonare insieme, quindi con una pratica attiva della musicoterapia, si ottengono questi obiettivi definiti”.
– Vedo che accanto a Lei c’è un bellissimo pianoforte. Quali sono gli strumenti che utilizzate maggiormente?
“Nei contesti di lavoro in cui operiamo, normalmente selezioniamo determinate strumentazioni che poi vengono arricchite da strumenti provenienti anche da varie culture extraeuropee. Lo strumentario è adeguato in modo specifico al contesto di lavoro. Ad esempio, quando operiamo con giovani e adolescenti possiamo avere una stanza strutturata all’interno della quale abbiamo strumenti che consentono di poter lavorare su aspetti ritmici, quindi percussioni di vario genere, melodici e anche armonici, quindi pianoforti, chitarre e tastiere. La varietà degli strumenti è ampia ed è selezionata dal musicoterapeuta a seconda dell’obiettivo. Quando, invece, lavoriamo in contesti anche di tipo socio sanitario, quindi hospice, ospedali o altri centri di cura, gli strumenti vengono utilizzati in sale dedicate alla musicoterapia o nelle stanze dei pazienti e la selezione di questi strumenti è diversa. Nel mio caso, operando in hospice da moltissimi anni, utilizzo strumenti dedicati a seconda della persona che incontro. Alcuni di questi strumenti sono stati creati appositamente per la musicoterapia, per rendere facile l’uso di uno strumento alla persona allettata o che fa fatica poiché ha poca energia per poter partecipare. Si tratta, quindi, di un ampio strumentario che, però, viene selezionato a seconda dell’incontro specifico e del contesto in cui operiamo”.
– Covid-19 e musicoterapia: come è cambiato il vostro approccio nei confronti dei pazienti da quando è scoppiata la pandemia?
“Come per tutti i contesti italiani, in cui come lavoratori siamo inseriti, quindi mi riferisco anche a tutte le professioni che hanno subito una modificazione del proprio lavoro, anche nella musicoterapia ci sono stati effetti e difficoltà che anche i colleghi, gli associati hanno incontrato. Passiamo da chi ha dovuto sospendere totalmente il proprio lavoro, poiché si trova a lavorare e vivere in zone fortemente colpite, come il Nord Italia, ad altri colleghi che operano nel Centro e nel Sud che hanno dovuto sospendere il lavoro anche solo temporaneamente. Sin dall’inizio c’è stata una risposta, anche uno scambio interno all’associazione, nel comprendere cosa poter offrire per non spezzare la relazione che si è creata con le persone che seguiamo, perché è fondamentale mantenere tali contatti. Sono nate esperienze di intervento a distanza, ovviamente i mezzi di comunicazione ci hanno facilitato, come è stato per numerose tipologie di lavoro. Riteniamo che questa sia stata una presenza importante per rimanere in contatto e che sia comunque un’esperienza temporanea, legata alla situazione di emergenza. Appena è stato possibile, infatti, molti di noi hanno ripreso i contatti in presenza, ovviamente con tutta l’attenzione a quelle che sono le richieste di controllo, l’uso corretto dei dispositivi di protezione ed il rispetto delle normative vigenti. Quello che è cambiato maggiormente è stato il prendere atto dell’essenza della musicoterapia: la musica è fondamentale all’interno del processo ma la presenza del musicoterapeuta fa la differenza nel poter offrire esperienze in cui la relazione cresce e mantiene questo contatto forte con con le persone con cui lavoriamo”.
– In questi giorni è in corso Festival di Sanremo. Ci sono canzoni che prenderebbe il prestito per fare musicoterapia?
“È una domanda complessa, nel senso che stiamo ancora ascoltando le proposte di nuove canzoni. Il Festival di Sanremo è sicuramente uno spazio interessante in cui vedere anche ciò che di nuovo arriva ma l’aspetto fondamentale è questo: quando utilizziamo canzoni con dei testi, è importantissimo tenere in considerazione il gusto, la sensibilità e l’obiettivo della persona con cui lavoriamo, poiché i testi, le stesse parole evocano situazioni fondamentali e soggettive, oltre ai ricordi. Ritengo, quindi, che da ciò che sta emergendo potremo sicuramente osservare se qualche canzone potrà essere inserita anche nei nostri repertori a disposizione, facendo ovviamente le dovute differenze nei contesti per età e utilizzo nell’intervento. La canzone italiana è una grande opportunità anche per quanto riguarda gli anni. Prendo ad esempio gli anziani affetti da demenza, anche in fasi molto avanzate di questa malattia: se recuperiamo canzoni degli anni ’40 e ’50, per i novantenni di oggi si riapre la memoria e si riaprono addirittura le parole legate a quei testi. La canzone rappresenta davvero uno strumento importante da inserire con tutta la delicatezza e l’attenzione che serve. Ci auguriamo che possa esserci qualcosa di utile anche in futuro”. (www.dire.it)