VASTO – Protesi verso il mare, quasi a volerlo proteggere, da sempre i trabocchi affascinano ed incantano tutti. In realtà non altro si tratta che di palafitte autoctone disseminate lungo il litorale d’Abruzzzo. Questi manufatti conservano le storie delle famiglie dei pescatori più poveri della zona che utilizzavano queste “macchine da pesca”. Anticamente erano luoghi scelti, oltre che per la pesca marina, anche per viverci tutto l’tanno.
Il termine trabocco, proviene dal dialetto abruzzese “travocche”, probabilmente ereditato dal latino trabs e vuol dire alber, casa. Ma altre interpretazioni invece, la parola sembrano voler riferire il termine trabochetto, in riferimento alla tecnica utilizzata per pescare che prevede l’uso di pali tra gli scogli.
Sono realizzate in legno di pino d’Aleppo, tipico delle zone dell’Adriatico, su tutta la costa Abruzzese. L’utilizzo di questo materiale non è affatto casuale, questo legno infatti, estremamente modellabile, è capace di resistere alla salsedine e alle forti raffiche di vento, tipiche del maestrale che batte il mar Adriatico.
La tecnica di pesca, utilizzata un tempo dai pescatori, è a vista: con le grandi reti a trama fitta infatti, la gente di mare riusciva a catturare i flussi di pesce che si spostavano lungo la costa. Una tecnica all’avanguardia che, secondo alcuni storici, potrebbe risalire ai fenici. La loro origine del resto, si perde nella notte dei tempi e evoca storie, fascino e suggestioni nell’immaginario comune.