Editoriale – Il 18 novembre 1922, cento anni fa, moriva uno dei più importanti scrittori di tutti i tempi: Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust. Nella sua breve esistenza – l’anno scorso si è festeggiato il 150° della nascita – Proust ha completamente ridefinito il senso, la struttura, i contenuti, le aspirazioni del romanzo scrivendo un’opera, la celeberrima “Alla ricerca del tempo perduto”, in cui estetica e letteratura, musica e pittura, teatro e poesia, filosofia e psicologia, sociologia ed politica, toponomastica e filologia, botanica e zoologia, meditazione e azione s’incontrano, si scontrano, si completano e si interrogano in continuazione per tentare di illuminare flebilmente l’abisso dell’animo umano.
Un sapere enciclopedico, con salde radici nella migliore letteratura francese ottocentesca (in primis Baudelaire e Balzac) e una sensibilità raffinatissima sono alla base della “Ricerca” quindi il lungo, forse noioso, elenco di “materie” appena riportato vuole evidenziare come, per l’autore, il mistero dell’uomo sia qualcosa che travalica gli angusti confini dei saperi accademici per spandersi in un’ampiezza infinita e insondabile. Le migliori menti del XX secolo si sono affaticate intorno a quest’opera gigantesca, labirintica, dalla fittissima trama di rimandi e citazioni. Non può certo il sottoscritto aggiungere qualcosa a ciò che Proust ci ha consegnato: la sua opera appare come una di quelle opere “definitive” quali l’Odissea o la Divina Commedia in cui 7 volumi, più di 4000 pagine e più di 2500 personaggi (reali e fittizi) non sono sufficienti a descrivere né l’animo umano né le sue creazioni.
L’umile articolista può solo invitare a trovare, proustianamente, il tempo per lasciarsi sorprendere e sopraffare dalla magia di una lettura tendenzialmente infinita in cui sprofondare per far sbocciare nel proprio intimo le lunghe, complesse, immaginifiche, articolate metafore e i sontuosi parallelismi spesso concludentisi con espressioni fulminanti che lasciano pensieroso e cogitabondo il lettore attento perché frantumano il lago ghiacciato della sua interiorità (come auspicava per un buon libro il contemporaneo Kafka). Uno scrittore quindi profondamente “inattuale” per una letteratura che oggi ha i propri dogmi nel cosiddetto impegno, spesso solo camuffata ideologia, e nella descrizione secca, asciutta, “realistica”, perciò piattamente superficiale perché ha programmaticamente eliminato l’essenziale ovvero la sfumatura.
Probabilmente pochi autori del Novecento hanno scritto di sé così coraggiosamente, sondando così veracemente l’animo umano senza cadere in una sterile, diffusa e molto moderna onfaloscopia che non ha più nulla a che fare con l’ascetismo bizantino, ma è solo l’altro lato della piattezza di cui sopra in quanto finta ed estenuata ed estenuante “profondità”. Le sue riflessioni sull’amore, sul sesso, sulla gelosia e la minuziosa ricostruzione delle più tenui variazioni e dei più piccoli cambiamenti negli umori, nei sentimenti, nelle riflessioni, nelle azioni sono doni che si possono portare a lungo nel proprio cuore perché l’autore, parlando di sé, parla di noi; parla delle nostre illusioni e delle nostre speranze, delle nostre debolezze, delle nostre vigliaccherie, delle nostre inconfessate, recondite motivazioni: mai come in lui vale per il lettore, nonostante le distanze sociologiche e temporali, il motto “de te fabula narratur”.
Non è certo possibile in poche righe dire nulla che si avvicini anche solo lontanamente alla profusione di immagini, concetti, sensazioni, riflessioni di quest’opera, dove la sinestesia domina incontrastata; vale quanto già scritto: la si legga, la si rilegga; ci si lasci sorprendere dalla sovrabbondanza barocca e mai tediosa delle descrizioni, si lasci sbocciare nella propria interiorità le ricchezze contenute nel “romanzo” affinché il Narratore diventi un nostro amico che, evocando i cambiamenti del contemporaneamente insondabile e sondabile tempo, ci accompagni e ci illumini tenuemente in quel viaggio che è la vita.
Nicola F. Pomponio