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Luoghi da visitare: il Santuario di San Michele Arcangelo in Puglia

Dal Maggio del 2011 il Santuario di San Michele, insieme agli altri siti longobardi di Italia Langobardorum,  è diventato Patrimonio Mondiale dell’Unesco. In riferimento a ciò, con il presente scritto, vogliamo riassumere brevemente l’importanza che ha il nostro Santuario nell’ambito della civiltà longobarda in Italia e nella cultura occidentale dell’Europa.

Il rilevamento topografico della caverna arcangelica ha consentito di verificare la corrispondenza dei dati fisici ed archeologici con quelli letterari offerti dall’Anonimo dell’Apparitio (Trotta 1994; Renzulli 1994). L’individuazione del primitivo ingresso settentrionale, ha portato a riconoscere, infatti, nella cavità minore dell’antro (=ecclesia apodonia) il primo nucleo monumentale del culto di S. Michele e a ipotizzare la collocazione di un altare con le impronte di S. Michele  nel punto più basso ed avanzato del corpo roccioso. Più in alto, nella parte  est, vi era una più ampia e profonda cavità (=basylica grandis), che si addentrava nelle viscere del monte e dove si trovavano l’altare sul quale Michele avrebbe deposto il suo mantello e un vaso contenente acqua miracolosa. Alla grotta si accedeva dalla parte nord, attraverso una stretta fenditura nella roccia (=posterula pusilla), e da un varco australe che portava alla basylica grandis. Lo studio orografico della zona antistante all’imboccatura ha rilevato che, in età prelongobarda, antecedente quindi alla metà del VII secolo, l’estensione del culto sull’intera superficie dello speco fu resa possibile con la costruzione di un lungo porticato (longa porticus)  che, superando una vasta depressione naturale, venne a collegare le due cavità, separate da un grosso setto di roccia. Su un arco della navata a pianta trapezoidale è stata trovata l’iscrizione di Pietro e Paolo, il cui significato ancora non ci è chiaro, ma che tuttavia dovrebbe appartenere ad “interventi di monumentalizzazione  della grotta anteriormente alla conquista longobarda, forse compiuto dai primi reggitori del santuario garganico”.

L’historia micaelica viene colta così come memoria fedele di una tradizione devozionale stratificata, che l’Anonimo ricostruisce attraverso luoghi già ai suoi tempi trasformati, e come realizzazione puntuale di un preciso tempo cultuale, il VI secolo, che si esprime con le prime fabbriche monumentali. Esse sono ben documentate nell’Apparitio allorquando vi si legge: “et ecce longa porticus in aquilonem porrecta atque illam attingens ianuam, extra quam vestigia marmori diximus impressa; sed priusquam huc pervenias, apparet ad orientem basylica grandis, qua per gradus ascenditur. Haec cum ipso porticu suo quingentos fere homines capere vedebatur, altare venerandum rubroque contectum palliolo prope medium parientis meridiani ostendens” (Apparitio, 5, 4-9). È l’esatta descrizione degli ambienti sottostanti il pavimento dell’attuale chiesa-grotta, la cosiddetta navata angioina, costituiti da una galleria voltata, in origine porticata, lunga 40 metri, suddivisa in campate da archi trasversali e da un ambiente diviso in due navate, occupate rispettivamente da una scala ad andamento rettilineo e da una scala “tortuosa” che porta direttamente alla cripta C, che è l’ambiente più antico, a cui è legata l’origine stessa del culto micaelico; evidentemente la “longa porticus” di cui riferisce l’Apparitio esisteva prima ancora che sopraggiungessero i Longobardi, i quali solo successivamente avrebbero apportato alcune modifiche alle strutture del santuario. Essa si sviluppava sul lato settentrionale (in aquilonem porrecta), a valle della cavità maggiore, andando a raggiungere poi l’altare delle Impronte (Trotta 2003). Varcata la galleria porticata ci si immetteva nella cripta B che si estende dalla grande muraglia di sostegno della superiore facciata di prospetto della navata, fin sotto l’attuale coro della basilica e sotto i gradini dell’altare del sacramento. “Il suo impianto, afferma C. D’Angela, è molto irregolare: si sviluppa in lunghezza per circa m. 16, mentre in larghezza raggiunge circa m. 6 sul lato ovest e circa m. 4 su quello est. Tale irregolarità planimetrica rispondeva, evidentemente, alla necessità di non alterare il luogo consacrato dall’apparizione dell’Arcangelo” (D’Angela 1980, p. 368). L’interno di tale ambiente è diviso in due navate, delle quali quella di sinistra è più ampia, scandita ai lati e al centro da tre archi a tutto sesto, che poggiano sulle mensole di grossi pilastri. Le prime due archeggiature del lato sinistro (nord) si presentano tamponate, ma in origine erano aperte e costituivano dei veri e propri ingressi. Da uno di questi ingressi entrò nell’867 il monaco Bernardo, il quale visitò il santuario garganico prima di imbarcarsi a Taranto per la Terra Santa (Trotta-Renzzulli 1997). Quindi uno degli ingressi al santuario era ancora in uso alla fine del IX secolo, lo stesso che evidentemente venne tamponato dopo il saccheggio dei Saraceni nell’869. Il lato destro, il cosiddetto muro continuo del Quitadamo, era anche tamponato da archeggiature, che delimitavano quel lato della navata minore dal pendio roccioso. La copertura, distrutta durante i restauri per il rifacimento del pavimento della chiesa angioina, che non poggiava, come si riteneva, sulla roccia, ma sul terreno di riempimento, era a botte, sostenuta da archi trasversali. La navata destra accoglieva, come abbiamo detto, una scala con andamento curvilineo detta dal Quitadamo “tortuosa”. Essa serviva a collegare la cripta B con l’atrio interno della grotta, dove vi era l’altare di S. Michele. L’altra scalinata a sinistra serviva invece da deflusso dei pellegrini.

I tratti murari di sostegno, archi e pilastri della scalinata monumentale che conducevano all’altare delle Impronte,  erano affrescati con immagini tratte dell’Apparitio  e dal repertorio ecclesiastico dottrinale. Da un punto di vista cronologico gli affreschi sarebbero posteriori ai graffiti e alle iscrizioni di età longobarda, risalenti ad una ristrutturazione del santuario da ascrivere probabilmente alla fine del IX secolo, se fosse esatta l’interpretazione di un diploma dell’anno 875 o 871, in cui Ludovico II concede ad Aione, vescovo di Benevento, i mezzi per restaurare la chiesa di S. Michele, dopo che il santuario, nell’869, era stato saccheggiato ad opera dei Saraceni stanziati a Bari e guidati dall’emiro Sawdan. Ciò anticiperebbe di un secolo quanto ebbe ad ipotizzare C. Brandi, allorquando li giudicò “non posteriori al X secolo e da assegnare all’area artistica romano campana”. Più recentemente Gioia Bertelli ha ipotizzato una loro appartenenza al mondo beneventano, quindi espressione di quella pittura che ebbe  ampia diffusione tra IX e X secolo nell’Italia centro-meridionale (Bertelli 2000, pp. 372-373). Tra gli affreschi più importanti da segnalare la raffigurazione di un personaggio in abito monastico, il  Custos ecclesiae, in cui si è ultimamente riconosciuto Leone Garganico (Bertelli 1999), e  alcuni elementi decorativi, vegetali e floriali, che presentano grandi fiori rossi dai lunghi steli su un fondo giallo, che sembrano richiamare direttamente i simili motivi visti al Volturno, nella cripta di Benevento, a Seppannibale e nella cripta del Peccato Originale a Matera. Infine da segnalare  un frammento di affresco, oggi scomparso e del quale resta testimonianza in una fotografia, nel quale si intravvedono la parte inferiore del corpo di un quadrupede e tracce di un’ala probabilmente riconducibili all’episodio del toro narrato nell’Apparitio.  I Longobardi comparvero nell’Italia meridionale verso il 570, stanziandovisi intorno a Benevento, che diventò la sede del ducato longobardo in terra meridionale. A Benevento si aggiunsero ben presto altri centri, fra cui Capua nel 620 e Salerno nel 640. Nel 724 il ducato di Benevento fu trasformato in principato da Arechi II. Il primo incontro fra i Longobardi e il Gargano avvenne al tempo di Aione, nel 642, il quale, secondo quanto tramanda Paolo Diacono,  mosse con il suo esercito da Benevento verso la costa adriatica per allontanare gli Slavi che erano sbarcati sulle coste sipontine, ma egli, attirato in un’imboscata, fu ucciso. Il suo successore, Radoaldo, accorse sul Gargano in favore dei Sipontini e inflisse una grave sconfitta agli Slavi. A tal proposito, il Guillou ipotizza che gli Slavi provenissero dalla Dalmazia, donde si erano mossi a causa della pressione esercitata su di loro dalle tribù croate, autorizzate dall’imperatore Eraclio a stanziarsi nell’area sipontina, per contrastare l’avanzata longobarda.

Successivamente, nel 650, secondo quanto tramanda Paolo Diacono, i Longobardi, guidati da Grimoaldo, duca di Benevento dal 647 al 671, sconfissero  sul Gargano i Bizantini e si impadronirono del santuario di S. Michele sul monte Gargano. Questo episodio, la vittoria dei Longobardi-Beneventani sui Napoletani-Greci, sarebbe stato successivamente oggetto di amplificazione politico-religiosa nel testo dell’Apparitio, che scritto sicuramente in ambiente longobardo, ha confuso l’episodio di Grimoaldo con la spedizione in Italia dell’imperatore Costante II avvenuta nel 663, il quale, era deciso a riprendere il santuario micaelico.

Con Grimoaldo ebbe inizio così quel rapporto duraturo e pieno di conseguenze tra il santuario garganico e la monarchia longobarda, che determinerà la diffusione del culto micaelico nell’Italia settentrionale, attraverso la fondazione di numerose chiese dedicate a S. Michele, fra cui la costruzione della chiesa palatina di S. Michele a Pavia e diverse altre chiese a Milano, Monza, Pisa, Lucca, Siena, Arezzo. Inoltre, sul piano politico-religioso, l’assunzione del culto micaelico divenne per i Longobardi un mezzo per diffondere e propagandare il cristianesimo fra la gente longobarda, ancora restia alla conversione. In un certo qual senso, afferma G. Otranto, il culto di S. Michele divenne un instrumentum regni per l’unità di tutti i sudditi longobardi (Otranto 1983).

Altrettanta devozione ebbero i successori di Grimoaldo, dai duchi beneventani Romualdo I e II, ai re di Pavia, Perterito e Cuniperto. Romualdo I e sua moglie Teodorata si fecero promotori di un vasto programma di diffusione del culto micaelico nell’Italia meridionale. Teodorata venne chiamata la Teodolinda del sud e contribuì in maniera determinante alla conversione del marito Romualdo che ancora praticava alcuni riti pagani, fra cui quello dell’adorazione del serpente. Sarà proprio sotto il loro regno, infatti,  che nel 663 il vescovo beneventano Barbato chiese ed ottenne di poter estendere la propria giurisdizione sul santuario micaelico e su tutti i possedimenti della diocesi di Siponto.

Il re Cuniperto (688-700), successore di Grimoaldo, fu il più devoto dell’Arcangelo e il più attivo nel diffondere il culto. Egli fece rappresentare il Santo guerriero sugli scudi, evidentemente per assicurare ai suoi successo. Inoltre fece coniare sulle monete l’effigie del Santo con gli attributi guerrieri della lancia e dello scudo, in cui si notano per la prima volta tracce di un artigianato molto esperto, completamente svincolato dai canoni delle stilizzazioni germaniche e invece visibilmente istruito degli espedienti stilistici bizantini. Tutto ciò, evidentemente, serviva a “trasformare una devozione tipicamente orientale e con caratteristiche puramente devozionali e taumaturgiche, quale era in origine quella micaelica, in un culto esasperatamente nazionalistico e guerriero, quale essa divenne a contatto con la cultura longobarda” (Petrucci 1971, p. 345).

Benevento è la città base per la diffusione dei Longobardi nell’Italia meridionale (la  Langobardia minor), la cui autorità politica man mano si estenderà su gran parte della Puglia. A Benevento fanno capo tutte le altre città conquistate dell’Italia meridionale. Persino l’episcopato sipontino, uno dei più antichi di Puglia, venne a dipendere, verso la fine del  secolo VII, dal principato di Benvenuto. A realizzare ciò fu proprio il duca Romualdo I, il quale nel 668, unì la chiesa di Siponto all’episcopato di Benevento. Nell’unione veniva compresa anche la chiesa di S. Michele sul Gargano. La notizia è riportata in un testo agiografico del IX secolo: Vita Barbati episcopi Beneventani. In esso si fa riferimento al vescovo di Benevento Barbato, il quale avrebbe avuto la giurisdizione sulla chiesa di Siponto e del Gargano dal duca Romualdo. L’unione venne sancita da una Bolla di papa Vitaliano II  del 667, la quale è ritenuta da diversi storici (Borgia, Troya, Palumbo) falsa. L’unione delle due diocesi racchiudeva in sé motivi di ordine politico e religioso. La città di Siponto era allora un porto che avrebbe dato sfogo nell’Adriatico ad un’intensa attività commerciale del ducato di Benevento. Inoltre le strette relazioni della città di Siponto col mondo bizantino avrebbe permesso un incontro e quindi un compromesso con le forze greche sempre presenti nella Puglia meridionale. A tutto questo si aggiunsero motivi prettamente religiosi. Secondo Barbato, vescovo di Benevento, il santuario di S. Michele, già alla fine del VII secolo, meta di numerosi pellegrini, sarebbe stato un valido elemento nell’opera di cristianizzazione del popolo longobardo. Non bisogna dimenticare infatti che ancora nel VII secolo i Longobardi, sebbene ufficialmente erano ritenuti cristiani, di nascosto adoravano ancora falsi idoli pagani, come serpenti e oggetti vari. Il vescovo Barbato, quindi, si volle servire del culto di S. Michele, per tanta parte vicino all’animo guerriero del popolo longobardo, per cristianizzare gli ultimi longobardi pagani. La diffusione rapida del culto micaelico in tutta la Longobardia avvalorò in seguito la politica religiosa del vescovo Barbato. E sarà proprio con i Longobardi e il loro culto per l’Arcangelo Michele che nascerà la città di Monte Sant’Angelo o più precisamente quel primo nucleo di abitazioni che poi formerà la vera e propria città, così denominata dalla presenza dell’Arcangelo Michele ivi apparso. Siamo agli inizi dell’VIII secolo, allorquando il santuario di S. Michele, tramite Siponto e Benevento, irradiò della sua luce tutta la cristianità altomedievale. Con i Longobardi il pellegrinaggio garganico, da una forma locale, passò a una portata più ampia, giungendo così a coinvolgere tutta la cristianità europea. Infatti, già alla fine del VII secolo, accorrevano al santuario di S. Michele sul Gargano non solo genti di Puglia e delle regioni circostanti, quali la Calabria, il Molise e la Campania, ma anche quelle dell’Italia settentrionale e di paesi europei, quali la Francia, la Germania e le Isole Britanniche. Di questi pellegrinaggi e della devozione  dei principi longobardi verso il santuario di S. Michele, oggi, abbiamo testimonianza in  numerose iscrizioni devozionali e di apparato incise su alcune strutture murarie dell’antico santuario altomedievale. “Nessuna delle iscrizioni, afferma C. Carletti, come chiaramente indicano il formulario, l’onomastica, la paleografia, può considerarsi anteriore al VII sec.: in definitiva l’intera documentazione epigrafica, che peraltro si presenta come un insieme sostanzialmente omogeneo, si inquadra in piena età longobarda. Questi i limiti cronologici: da una parte l’età di Grimoaldo I (647-671) e di suo figlio Romualdo I (663-687), i quali, come si vedrà, sono esplicitamente ricordati in alcune delle iscrizioni, dall’altra, l’869, anno in cui i Saraceni, stanziati a Bari, sotto la guida dell’emiro Sawdan ad ecclesiam sancti Michaelis in monte Gargano perrexerunt, et clericos eiusdem ecclesiae multosque alios qui ad orationem illuc convenerant depredantes, cum multa spolia ad sua redierunt” (Carletti 1980, pp. 11-12)

Allo stato attuale è difficile distinguere i singoli interventi e precisare la portata di essi, anche perché i restauri che si sono succeduti nei secoli, fra cui anche quelli recenti, hanno alterato e compromesso la lettura delle strutture originarie. Infatti, è estremamente difficile individuare le strutture appartenenti agli interventi bizantini da quelle dei Longobardi, per non parlare poi delle strutture originarie dell’Apparitio. Probabilmente, i primi interventi dei Longobardi hanno interessato opere di risistemazione e ampliamento delle due scale di accesso alla grotta, per il flusso e deflusso dei pellegrini, nonché una maggiore ristrutturazione della galleria porticata, forse utilizzata anche come hospitium. Tuttavia, gli interventi non sono limitati solo a questo, giacché, complessivamente, essi sembrano essere stati ben più massicci ed aver interessato anche altre parti del santuario. Probabilmente il primo intervento risalirebbe all’epoca di Romualdo I (662-687), il quale fece costruire una nuova scalinata che conduceva all’altare delle Impronte e poi, deviando verso mezzogiorno, raggiungeva il camminamento che portava alla basylica grandis. Successivamente, il setto roccioso che divideva la due cavità fu abbattuto, per cui si venne a creare un unico grande ambiente al quale si accedeva per una nuova scalinata monumentale: essa, realizzata ad un’altezza maggiore rispetto a quella fatta costruire da Romualdo I, partiva dall’antico ingresso meridionale ed era fiancheggiata da due ordini di archi che permettevano una visione globale della caverna. Contemporaneamente, la scalinata monumentale fu collegata, tramite due campate, al corpo centrale di una fabbrica costruita da cinque campate; una ottava campata sul lato opposto alla scalinata servì come  ingresso a tale struttura, che si configurava come una galleria lunga circa quaranta metri, corrispondente all’attuale Museo lapidario. Altri interventi edilizi hanno interessato la parte superiore della longa porticus e precisamente la costruzione di una mansio, cioè di un ambiente adibito alla sosta dei pellegrini. Ciò è stato ipotizzato da Cagiano de Azevedo, allorquando afferma che al di sopra della galleria è stato sviluppato un ambiente presumibilmente delle stesse dimensioni (Cagiano de Azevedo 1976). E’ difficile, però, stabilire quando siano stati costruiti questi altri ambienti che si sono aggiunti a quelli di età bizantina. Alcuni scrittori hanno visto in questa mansio, riportata d’altronde dalla stessa Apparitio, l’ambiente o gli ambienti (si parla infatti di ampla tecta) fatti costruire dalla regina Ansa, moglie di Desiderio (756-774) per garantire il riposo e il ristoro ai pellegrini che giungevano al santuario garganico. Ciò è stato parzialmente confermato dalla individuazione, durante i lavori di sterro, di due aperture arcuate su un tratto dell’alzato della muratura esterna del lato sud, al di sopra della galleria. Tutto ciò sta a testimoniare che alla fine del IX secolo il santuario garganico  aveva raggiunto una dimensione europea, dove, come si evince dal ritrovamento di iscrizioni runiche, si dirigevano pellegrini provenienti non solo dal territorio italico, ma anche dall’area franca e dalle isole anglosassoni. Inoltre l’insediamento cultuale micaelico, d’altra parte, veniva a trovarsi nella grande direttrice del pellegrinaggio altomedievale europeo, che aveva come principali poli di attrazione Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostela, che erano considerati i  grandi centri della religiosità occidentale ed orientale.

Le iscrizioni, numerose tracciate a sgraffio o incise sui muri dei fedeli e dei pellegrini, in visita al santuario di S. Michele,  riportano informazioni relative agli elementi nominali, alla loro provenienza, allo status sociale e culturale dei viatores, come nel caso di un certo Arricus che  aggiunge al proprio nome de Marsica (Abruzzo), o di un Leo che si qualifica de Bergamo ed infine di un  Eadrhid, vir honestus, che per tutto i secoli VII e VIII frequentarono il santuario. Si è potuta rilevare, afferma  Cataletti,  la presenza di antroponimi per lo più tipicamente longobardi (Afridus, Ansipertus, Arechis, Mauruandu, Auderada, Cunualdus, Ildirisi, Rumildi), ma anche, in misura minore, di nomi franchi (es. Budo, Eudo…)  e anglosassoni (es. Eadhrid…); sono state individuate inoltre alcune iscrizioni tracciate in caratteri runici, (come Hereberecht, Wighus, Herraed, Leofwini), databili intorno alla metà dell’VIII secolo, da riferire evidentemente a visitatori provenienti dall’area anglosassone (Carletti 1980).

La sottoscrizione autografa è spesso preceduta dalla croce (Signum crucis)  ed è seguita a volte dall’acclamazione biba in deo o biba in deo semper, generalmente intesa in senso funerario-escatologica, ma qui da interpretare piuttosto come una generica acclamazione augurale rivolta allo stesso scrivente. È stata riscontrata, inoltre,  la presenza di ecclesiastici, soprattutto presbiteri, ma anche di alcuni monaci e di un diacono. Generalmente questi avevano un discreto grado di alfabetizzazione, mentre la maggior parte dei pellegrini, al contrario, si sono serviti dell’aiuto di altri, per apporre la loro sottoscrizione. Ciò  è indice di una diffusa analfabetizzazione maschile, con punte più alte fra le donne, a causa di pochissimi antroponimi femminili. Tra le iscrizioni di apparato segnaliamo alcune di rilevante importanza per la storia del nostro santuario. Una si trova all’inizio della scala tortuosa, su un pulvino del pilastro, un punto di passaggio obbligato per i pellegrini che si accingono a visitare il sacro speco. Vi si legge:

+ de donis dei et sancti archan

+ geli fiere iusse et donavit

+ Romuald dux agere pietate

+ Gaidemari fecit

(Spinto dalla devozione, per ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo, il duca Romualdo volle che si realizzasse (la costruzione del santuario)  e ne fornì i mezzi. Gaidemari fece).

In questa iscrizione, da riferirsi certamente a Romualdo I, duca di Benevento fino al 687, viene messo in risalto la devozione della stirpe beneventana per l’Arcangelo Michele, che si distingue anche per la realizzazione di opere all’interno del santuario. Inoltre  nell’iscrizione sono ricordati, in maniera contestuale,  i nomi di quattro personaggi appartenenti alla corte longobarda, detti viri honesti (Raduni, Teospardu, Guademari  e un nome lacunoso) che parteciparono alla realizzazione delle opere murarie.

 

Un’altra iscrizione richiama la figura di Romualdo I e della di lui moglie Gumperga in visita al santuario garganico:

+ Gabriel angelus qui bos protegad

+ Rumuualdu dux

+ Gunperga

+ deus  iudicium tuum regi da et iustitia tua

+ filiu regi

(L’Angelo Gabriele vi protegga, duca Romualdo, Gunperga. Dio dà al re il tuo giudizio e al figlio del re la tua giustizia).

Romualdo II è duca di Benevento dal 706 al 731 e, succedendo al padre Gisulfo, sposa in prime nozze Gunperga, figlia di Aurora, sorella del re Liutprando. Le ultime due righe riportano testualmente i primi due versetti del Salmo 71, che si configura come una preghiera a Dio affinché conceda a Romualdo II la capacità di ben governare e al figlio, il futuro duca Gisulfo II (742-751), nato dal matrimonio con Gunperga, il senso della giustizia.

Di dubbia interpretazione è l’altra iscrizione che si trova sulle strutture murarie del santuario:

+ hic patri eius regni cumsortior

+ erector sic terrena sumtsit

+ celestia numquam relinquit

Secondo il Carletti l’iscrizione si riferisce al fervore di opere che si manifesta sotto il regno di Grimoaldo I (647-671), il quale, essendo re di Pavia, associa nel suo regno (cumsors) il figlio Romualdo I (663-687), duca di Benevento. Mentre, secondo G. Otranto, l’iscrizione è da riferirsi a Pertarito e al figlio Cuniperto. Pertarito diviene re dei Longobardi nel 671 e dopo sette anni, secondo il racconto di Paolo Diacono, si associa al regno come co-reggente, il figlio Cuniperto, col quale condivide la responsabilità della reggenza per ben 10 anni. Secondo una tradizione locale, Cuniperto, dopo aver sconfitto, con la protezione dell’Arcangelo, il duca Alahis, nel 691 si sarebbe recato in pellegrinaggio al santuario garganico. Tuttavia più in generale l’iscrizione potrebbe essere inteso in senso teologico e si configurerebbe come una vera e propria professione di fede ortodossa nella divinità e umanità del Cristo.

Non è escluso che Cuniberto, per la sua devozione all’Arcangelo, abbia predisposto alcuni interventi edilizi nel santuario. Tuttavia non c’è dubbio che ai re e ai duchi longobardi, da Grimoaldo a Romualdo I, Romualdo II, Pertarito e Cuniperto, sono legati alcuni interventi edilizi riguardanti opere di ristrutturazione del santuario micaelico, rese necessarie “per le accresciute esigenze di spazio, per un più confortevole soggiorno e per un più comodo flusso e deflusso dei pellegrini, che in questo periodo accorrevano sempre più numerosi al santuario, lasciando, nelle epigrafi e nei simboli tracciati sui muri i segni della propria presenza” (Otranto 1990, p. 42).

 

Testo a cura di Giuseppe Piemontese  fonte:www.montesantangelo.info

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