Energia, l’Iva indebita si recupera con l’azione di ripetizione
in caso di assenza di un rapporto diretto tra le parti, non sussiste un diritto sostanziale della società a richiedere il rimborso direttamente all’amministrazione finanziaria
Roma – Non è legittimata a presentare l’istanza di rimborso Iva alle Entrate, la casa di cura che ha indebitamente versato l’Iva sulla fornitura di energia elettrica avendo, le società fornitrici, erroneamente incluso nella base imponibile anche gli oneri generali di sistema afferenti al sistema elettrico.
È la sintesi della sentenza della Cassazione n. 19837 del 20 aprile 2023.
Il punto centrale del caso in esame non è la sussistenza o meno del diritto al rimborso, ma il diritto a richiederlo direttamente all’amministrazione finanziaria, come sostenuto e argomentato dalla difesa.
Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità riguarda l’acquisto da parte di una società di beni e servizi nell’esercizio di una attività economica non imponibile ai fini Iva. Nello specifico la società, una casa di cura, aveva chiesto il rimborso dell’Iva per l’energia elettrica somministrata da due società distributrici, a suo dire indebitamente versata in quanto tali società avevano incluso nella base imponibile anche gli oneri generali di sistema afferenti al sistema elettrico.
A seguito della richiesta di rimborso l’Agenzia delle entrate emette un provvedimento di diniego. La società ricorre contro l’amministrazione fiscale e la Ctp accoglie tale ricorso. L’Agenzia quindi ricorre in appello e la Ctr, in linea con la ricorrente, stabilisce che la società non era legittimata a richiedere il rimborso dell’Iva indebitamente corrisposta, essendo la stessa società cessionaria della prestazione del servizio di somministrazione di energia elettrica. La ricorrente per la Corte d’appello avrebbe dovuto eventualmente esperire nei confronti delle società che le avevano somministrato l’energia elettrica, l’azione di ripetizione di indebito, di natura civilistica.
La società quindi ricorre in Cassazione sulla base di due motivazioni. Con il primo motivo, secondo la ricorrente i giudici d’appello avrebbero erroneamente ritenuto che non poteva chiedere il rimborso dell’Iva in rivalsa, per la mancanza di un rapporto diretto fra la stessa e l’amministrazione finanziaria.
Tale argomentazione difensiva non convince la Cassazione. I giudici di legittimità infatti ritengono che nel caso in esame non sussiste un diritto sostanziale della società a presentare una richiesta di rimborso direttamente nei confronti dell’amministrazione finanziaria, per assenza di un rapporto diretto fra le parti.
Come chiarito anche dalla Corte di giustizia (causa C-35/2005) il fruitore dei beni o dei servizi può ottenere il rimborso dell’imposta illegittimamente versata esperendo nei confronti del cedente o del prestatore un’azione di ripetizione d’indebito di rilevanza civilistica (vedi anche causa C-427/2010, e causa C-94/2010). Soltanto se il rimborso è impossibile l’acquirente del bene può essere legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie (come nel caso di fallimento del venditore, Corte di giustizia, causa C564/2015).
Secondo la Cassazione quindi deve escludersi, nel caso in esame, un rapporto diretto ai fini Iva tra la casa di cura e l’amministrazione, avendo l’istante versato l’imposta in rivalsa a favore del soggetto passivo dell’imposta, cioè le società fornitrici. Sono quest’ultime ad essere titolari del rapporto tributario con l’amministrazione finanziaria. Né può affermarsi che l’istante avendo acquistato beni nell’esercizio di impresa è essa stessa un soggetto attivo del rapporto Iva che può chiedere direttamente il rimborso all’erario: il fatto che l’istante ha versato l’Iva non dovuta non lo pone davanti a un rapporto diretto con le Entrate non essendo, lo stesso istante, il soggetto passivo dell’imposta versata, qualifica invece attribuibile a colui che ha realizzato il presupposto impositivo.
Anche la numerosa giurisprudenza comunitaria, richiamata dalla ricorrente, in realtà limita l’ipotesi di azione diretta ai casi in cui è certa la non recuperabilità del credito nei confronti del cedente.
Ne è stato accolto il secondo motivo di ricorso con cui la società ricorrente lamentava il difetto di “legitimatio ad causam”: il provvedimento di rigetto del rimborso, precisa la Suprema corte, non ha la stessa valenza di un provvedimento impositivo, con la conseguenza che deve ritenersi sufficiente una motivazione di diniego al rimborso limitata all’affermazione che non sussistono i presupposti per provvedere alla restituzione dell’imposta da parte del fisco.
La Cassazione, in conclusione, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.