Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Prima parte
Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi
Stasera c’è la partita, lo so: la finale di ritorno dei playoff di serie B. Ma non la guardo, che altrimenti faccio tardi e domani alle quattro del mattino mi aspetta il tassista. Poi comunque non ce la possono fare a vincere in trasferta. Figuriamoci, si dice sempre così: ma intanto al fischio d’inizio sono già sintonizzato. Vediamo come butta, se vanno sotto spengo e vado a dormire.
Ma che brutta è la maglia del Bari! Messaggio col Ga, l’amico fidato che segue a sua volta la partita senza esserne coinvolto in maniera emozionale come me. Il portiere avversario fa due o tre interventi miracolosi, ma il mio Cagliari gioca. Niente, qui tocca vedere anche il secondo tempo. Apro una birra e mi ributto sul divano. La ripresa è più equilibrata, si vede che si sta avvicinando il traguardo, le squadre sono un po’ bloccate. A cinque minuti dalla fine ho perso ogni speranza, anche se il punteggio è ancora sullo zero a zero. Il telecronista annuncia l’ultimo cambio a disposizione per la squadra ospite: vero, penso, c’è ancora quel giocatore, che in passato di gol ne ha fatti tanti. Bravo, dico all’allenatore: buttalo dentro, magari segna! Poi arriva un passaggio sulla fascia, il terzino è libero, troppo libero. Salta la marcatura e crossa. L’urlo è lungo, disperato, come quello di ogni gioia inaspettata. Guardo l’orologio e mi faccio una promessa: ora fino alla fine devo pensare che sono ancora pari. Per fortuna dura solo un paio di minuti e l’arbitro fischia: è serie A! Incredibile, davvero, arrivano i primi commenti. L’adrenalina accumulata adesso avrà bisogno di tempo per scendere, altro che dormire un numero di ore accettabile! Oddio, la sentirò la sveglia?
Il filmato del gol della promozione del Cagliari nelle prime ore successive lo rivedrò troppe volte, tanto da finire i giga a disposizione sul telefono! Ma ora cosa ci faccio ad Amsterdam, davanti al riflesso verde di un bancone Heineken di tarda mattina, oltre a verificare che per lavori in corso e scortesia del personale l’aeroporto si è meritato il downgrade nella classifica di soddisfazione della mia indagine? Sono qui per il viaggio dei 50 anni, che non ho ancora compiuto ma che voglio cominciare a festeggiare già da adesso, approfittando della vacanza ‘tennis e mare’ del resto della piccola famiglia in Calabria. Un viaggio impegnativo, sulla carta, vista la nomea di pericolosità dei luoghi che ho scelto per fare il pieno di bandiere in questa primissima estate di giugno. Brrr, dicono da casa. Da qui è derivato in maniera abbastanza ovvia il titolo per il racconto e di conseguenza il suo stile a metà tra la commedia e il docufilm.
In bagno appoggio il trolley alla parete, chiedendomi come farò a trascinarmelo per tutti questi giorni senza mai dimenticarlo. Guardo le forme di formaggio esposte in ogni negozietto di Schiphol, giurando che al ritorno come sempre saranno mie e in un attimo sono sul Boeing che attraversa l’oceano. Lunga, molto lunga, mi sembra stavolta la traversata, di certo la stanchezza pregressa accentua il desiderio di arrivare in un attimo. Per fortuna che mi sono fatto cambiare la fila e mettere più avanti, di modo da non perdere la coincidenza! Ma a Panama lo scalo non è poi così rapido come pensavo, tra i corridoi dell’ampliamento del terminale e la coda per quella consumazione obbligatoria che cerca di dare all’ultimo segmento del lungo viaggio di avvicinamento il colore giusto dell’eccitazione.
Ci sono con largo anticipo, al gate. E il volo Copa per Guatemala City è da subito uno di quei momenti mitici, quando guardi e riguardi il tabellone pregustandoti il nome della tua destinazione, quando sospiri lungo il finger, e poi pazienza se il comandante annuncia che andremo a Mexico City: si correggerà subito e vedremo le nubi scure colorare l’ultimo bagliore di luce sull’oceano. Ecco che inizia la discesa, quasi non ci credo: tra poco avrò un letto dove provare a spegnere l’interruttore cerebrale.
Però, che strano, le case sembrano un po’ troppo vicine, e poi perché l’aereo continua a scodare? Non c’è vento. D’un tratto un rombo pazzesco dei due motori rompe il silenzio a bordo. Ma che succede? Con un’accelerazione disperata, il pilota riprende quota. Non posso credere a quello che ho appena visto: in più di cinquecento voli non mi era mai capitato! Subito il copilota annuncia che l’atterraggio è stato abortito perché sulla pista c’era traffico. Poco credibile, come scusa, direi: dal finestrino ho visto a malapena un paio di aerei parcheggiati. Ma tant’è: se il pilota è stordito a tal punto da annunciare una destinazione sbagliata, forse allora non ce la fa ad atterrare. Poi mi torna in mente una statistica sugli aeroporti più pericolosi del mondo: caspita, al numero sei c’era proprio La Aurora di Guatemala City!
La pista è corta e se non si scende nel punto giusto si finisce lunghi; ecco, adesso questi momenti mentre l’aereo riprende quota sono decisamente sospesi. Mi guardo attorno: metà dei passeggeri sembra attraversare la situazione con serenità, gli altri potrebbero essere in preda al terrore, a giudicare da gesti inconsulti e maschere facciali. Io rimango sereno davanti a me stesso, ben sapendo che quel momento un giorno o l’altro deve arrivare, ma il fatto di avere ancora da aspettare una decina di minuti prima di sapere se è oggi la mia ora non è proprio una sensazione che potrei augurare a nessuno.
Quando il copilota annuncia il secondo tentativo di discesa, vampate di terrore prendono possesso del mio cuore. Cosa penseranno a casa? Chi sarà il primo a capire? Ora però non tocca più a me: quel che è fatto, è fatto. Se ci schianteremo ci sarò anche io. L’aereo scende in maniera molto simile, leggermente più stabile, appena più lontano da quel vecchio grattacielo che poco fa mi era sembrato quasi di sfiorare. Ecco le case di prima, le riconosco tutte, a una a una. Nel punto in cui al precedente tentativo aveva finito per risalire, l’aereo scoda di brutto e accelera ancora una volta. Un attimo eterno riempie la mia testa di panico. Poi decelera all’istante, si mette dritto e tocca terra, tra i segni della croce che si sprecano nelle file vicine. Rilasso la testa sul sedile, pensando che alla fine non solo potrò accendere ancora il telefono, ma che nessuno in Italia dovrà sentire la notizia di un aereo precipitato in Guatemala.
Il controllo passaporti è rapido e indolore: per una volta non mi sale nemmeno il solito attacco d’ansia in coda al gabbiotto, perché l’angoscia vive saldamente dentro di me e non mi lascerà di certo prima di molte altre ore. All’uscita chiedo indicazioni sul bar dove in teoria mi aspetta l’anziano tassista col cartello; eccolo, carico la valigia e la notte all’improvviso ha il volto del Guatemala, mentre al di là del filo spinato riposa ancora la mia paura. Stanotte non potrò che avere un obiettivo: rilasciare tutta la tensione accumulata. Ma intanto ci sono, e soprattutto sono qua, nella Zona 9 alle ore nove, davanti alla cortesia della receptionist, tra i letti enormi delle camere in legno del Centroamerica, nei corridoi bui che spalancano il primo titolo dell’NBA per Denver, al tavolino di una birra Gallo da replicare a nostro piacimento.
Forse domani comincerà il mio viaggio.