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Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Seconda parte

Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi

Che dire? Ci si mette anche il jet lag, adesso, a ridurre a quattro ore il tempo di sonno, per la seconda sera di fila. Fuori fa chiaro con grande evidenza alle 5 del mattino: lo sapevamo già che il fuso orario del Centroamerica non è settato in maniera ottimale, ma qui tocca rigirarsi tra i materassi almeno fino alla mia agognata colazione a base di tamales, frijoles e fajitas, in mezzo a chi è qui per lavoro, nel sottofondo del solito approfondimento della CNN.

Oggi dovrebbe essere una giornata interamente senza preoccupazioni: ma come, dite voi, impossibile, vero? La meta è Antigua, la destinazione numero due del Guatemala, e pazienza se Tikal l’abbiamo sacrificata a un’idea, Livingston a un feticcio, il lago Atitlàn a una TAC al cervello. Pensavamo ancora di farcela, quando le teste sbattevano contro i muri durante le ore di educazione fisica fatte senza l’aerobica, ma poi capimmo che sarebbe stato meglio affrontare questo viaggio in solitaria. Fuori intanto la capitale che mi ha già regalato la bandiera giace tappezzata in ogni dove di manifesti: chissà se ce la farà Sandra Torres a essere la prima presidentessa donna! Ci sono ben ventidue candidati per la presidenza, qualcosa di impensabile, indice anche dell’elevato livello di corruzione. Chi ha i soldi per la campagna spesso vince o almeno arriva al ballottaggio.

Il tema della sicurezza è tornato preponderante, dice il tassista: lui se ne sta a Mixco, la città satellite che stiamo attraversando, riflesso evidente di una crescita economica a colpi di chiese protestanti: una località che dà proprio l’impressione di quel nulla in cui tanti si sentono a loro agio. Io invece agogno il bivio, quello degli svincoli stradali in ottime condizioni e delle bandiere regionali verdi che cominciano a segnalare la peculiarità della vecchia capitale con una discesa precipitosa: se fossi alla guida io, i freni sarebbero già bruciati.

Certo che lo troviamo, l’hotel, non agitarti inutilmente! Sensi unici, strade di pavé. Ma l’incanto immediato è con questo reticolato uniforme di vecchie case coloniali a un piano, rampicanti di chiese in rovina e nuove tinteggiature per le tante attività economiche trainate dal turismo. Fortunatamente non è stagione, adesso, e la folla degli infradito rimane sparuta e composta, quasi ai margini rispetto all’attività freneticamente lenta dei tailleur e delle autofficine. Qualcuno aspetta sempre un’escursione, a ogni angolo di strada. Oggi le nubi chiedono un sacrificio alla mia valutazione estetica, regalandomi in cambio un filo di refrigerio che non vale la luce sbagliata dei miei soliti dettagli minimalistici di finestre, muri scrostati, cartelli, stipiti, grondaie e maniglie. Cerco il vulcano dell’acqua, quello del fuoco: vette verdi di tremila metri che circondano la città in un abbraccio eterno. Niente da fare, in ogni sfida con Filippo, che io venga prima o dopo di lui nello spettro temporale dei viaggi, non potrò mai competere con le sue istantanee panoramiche ritoccate. Nemmeno voglio, diciamocelo: quando si riconosce l’eccellenza altrui, bisogna inchinarsi umilmente.

Sei tranquillo, adesso, che hai già il taxi anche per domani? Non dovrai nemmeno stressarti aspettando che si liberi la ragazza alla reception. E il tuo spagnolo spagnoleggia a sufficienza per queste zone, sembra di capire. Ora sgombra la tua testa dalle preoccupazioni e vai a perlustrare ogni angolo di questa meraviglia che trapassa le aspettative! Parti dall’ABC, dagli huipiles in vendita in successione cromatica, dai concerti spontanei di marimba, dagli zaini e dalle pance sulle panchine del Parque Central, dalla commistione di archi e linee sinuose nel bianco della Cattedrale, dallo splendido porticato giallo dei Capitani Generali. Poi tocca concedersi all’attrazione più fotografata: il fatidico Arco de Santa Catalina, icona in vernice color pulcino bagnato, un orologio che segnala la sua autorità sulle maschere appese ai muri e sulla parata di vestiti tradizionali con tutti i colori delle lanterne decorative.

Questa è la città dei cortili: ogni abitazione conserva il suo bel porticato interno, dove lavorare al PC o fare la lista del prossimo ordine di cibo per il B&B: un universo di ombre sfumate nel verde della vegetazione rigogliosa. Qualcosa per cui stupirsi, alla pari delle insegne commerciali, rispettosamente in legno, che non possono snaturare l’immagine complessiva della città incantata, nemmeno per un immancabile Pollo Campero o per gli archetti dorati del più grande colonizzatore del recente passato e del presente.

Non parliamo di politica in questo libro, lo sapete, vero? Tegole sporgenti, cancelli aperti a una coda dal dentista, tetti scoperchiati dell’ennesima chiesa in rovina, decorazioni floreali nelle colonne della Merced, fontane timide, tinte color pastello, motorini parcheggiati in fila, sacchi di mais scaricati al mercato. Siamo in vacanza, allora saliamo qualche gradino di una scala a chiocciola per un pranzo anticipato. Ci dicono che il cortile dello splendido birrificio artigianale non è il posto migliore, ma cosa potrà mai essere meglio? La terrazza! Sono stato ingenuo, credevo di avere visto tutto in poco tempo.

Ed ecco che prontamente devo correggermi in corsa: questa è la città dei cortili porticati e dei tetti con vista. Troppo lungo, come nickname. Non importa, qui c’è l’ombra, sotto questo telone bianco e allora all’insalata locale con il tocino abbinerò l’assaggio in bicchieri da 0,2l di tutte e sei le birre prodotte in loco, mentre lo stereo passa Tom Petty e i suoi classici immortali che fanno sempre così tanto felicità immediata dell’esistere, figurarsi con la leggera ebbrezza di un vento che porta le nuvole ad avvolgere le cime dei vulcani. Vero, i vecchi tempi un giorno potrebbero non tornare: allora viviamoceli passo a passo, tra le studentesse in uniforme blu scura che escono da scuola, gli altari festonati di devozione a San Francisco, il chiostro in rovina a Santa Clara, le chiacchiere calme dei ragazzi alla vecchia lavanderia comunale coloniale, sorprendentemente grande e conservata, dall’acqua cristallina.

Quando l’insegna recita Irish Pub non resta che provare a toccare il cielo, inseguendo le ombre delle persone che passano per strada in un tramonto molto precoce e il corteo nuziale che incede dietro alla sposa e alle sue scarpe col tacco rosa. Proveremo a sostituire al colore diverse tonalità di bianco davanti a un Zacapa Centenario con ghiaccio, mentre ci raccontano storie di viaggi da Bismarck a Mixco, it’s dangerous, le frontiere, la pensione in Guatemala, i locali che nel Nord Dakota offrono birre a chi passa tutto il pomeriggio a buttare i dollari al videopoker. Cinquanta verdoni per una pinta, però, nice one Shawn. Nello spazio di riflessione di una notte che passerò ad ascoltare i comizi elettorali a favore dell’educazione bilingue per la numerosa comunità maya, scelgo senza indugi di accomodarmi alla balconata con vista del boutique hotel, a vedere le campate in rovina del complesso della Cattedrale colorarsi di rosso, di rosa, di blu, di nero alla luce delle lampadine pensili sulla notte di Antigua Guatemala: un hamburger potrà andare bene, per spezzare la dittatura delle tortillas.

Siamo giù in strada con quindici minuti di anticipo, tanto per cambiare. E anche il tassista arriva nello stesso lasso di tempo, saluta, cerca un parcheggio, si scusa per non aver lasciato neanche un biglietto da visita, un recapito: già, come mai non ci ha avvolto l’ansia al riguardo? Perché l’avevamo battezzato un buono, minoranza non rappresentativa della popolazione là fuori, qui come ovunque. Ma ora le preoccupazioni galoppano: da dove partirà il bus domani? Arriverà la guida per la mia escursione a Guatemala City nel pomeriggio? Con il cuore in gola apro per l’ennesima volta il portadocumenti, inserisco la mia mano tremante fino a tastare il ruvido del passaporto, divenuto nel frattempo il numero uno al mondo.

Va bene, rilassati, adesso, stanno passando di nuovo Mixco, le pollerie infinite, i negozi di ricambi auto di terza mano, l’infilata astratta di facce che promettono la loro versione di menzogna popolare da un manifesto elettorale. Appaiono i ristoranti, i marciapiedi curati, gli alberi spontanei che inondano di poesia le strade dei grandi alberghi e dei complessi di uffici: comincia a suonare l’orchestra nella mia testa, quella al momento distratta da altri pensieri, anche dalle recensioni al mio primo romanzo pubblicato in self che domani vedrà la luce. Ma quella è Plaza de España! Niente da fare, questo è amore a prima vista, per quegli edifici a semicerchio che ricordano indubbiamente la periferia della capitale spagnola, più che per l’area verde che hanno risistemato di recente, come dice il tassista. Scendo, saluto, mi attende l’hotel.

Vedo subito, di fianco, l’ufficio dal quale parte il bus della Pullmantur che collega ogni giorno Guatemala City con San Salvador e Tecucigalpa. Non ti è piaciuto il libro? Mi spiace, dopo ascolto tutti i tuoi vocali, ma adesso devo verificare di essere in regola per domani. Tutto in ordine. Quarantacinque minuti prima, domattina. Farò mettere anche il despertador alla reception. E magari chiederò una sveglia suppletiva dall’Italia, con le sue otto ore di fuso orario di differenza. Dalla stanza mando un’istantanea dello skyline della capitale.

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