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Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Quinta parte

Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi

Fermín mi ha già scritto su WhatsApp, quando prendo in mano il telefono dopo dieci ore di sonno. Farà tardi, perché devono sostituire il veicolo: di fatto, questo già significa che arriverà. Dimentica le preoccupazioni, oggi la tua bandiera luccicherà del prestigio del centro storico, ora scendi a farti fare una pupusa anche per colazione, già che ci sei, mentre in tv un ginecologo parla delle infezioni ricorrenti.

Eccolo che scende dal suo vecchio fuoristrada, un trentenne, bene: saprà sicuramente rispondere alle mie domande più deviate, tipo quella che faccio subito sull’economia, perché non mi aspettavo di certo una città così in spolvero. Scopro che dopo la pandemia c’è stata la svolta, qui e in Guatemala. Anche in Honduras? chiedo. Un po’ meno là, perché i problemi politici restano importanti. Va bene, la curva in crescita ci piace sempre, e qui lo so, che siete europei, anche con una popolazione sottostimata. Forse non lo vivo a fondo, ora che ci sono dentro. Forse un giorno, a casa, mi batterà ancora forte il cuore a rivedere il parcheggio alberato dove Fermín ora inforca l’ultimo spazio ombreggiato.

Faccio fatica a scendere e non c’entrano le mendicanti, ma l’altezza: ovvio, scelgo di visitare la Iglesia del Rosario, con il suo stile brutalista, due dollari di valuta ufficiale per una fantasmagorica apparizione di riflessi di vetrate colorate e una via crucis contemporanea di statue astratte davanti alla compostezza delle classi scolastiche. Qui le vacanze sono a gennaio, io come sempre non so quasi nulla ma quella immagine la riconosco: è piaciuta anche a mia figlia, quando l’ha vista dipinta sulla parete al ristorante di Affori, vicino alla sua futura scuola. Altro che bella penna, qui mi sto incartando, ma Plaza Libertad è stato solo il primo tassello della liberazione del Centro Historico dagli ambulanti che ogni giorno invadevano la strada senza controllo. Mmm, penso, sono sicuro che ci saranno altre narrazioni, al riguardo.

La casa più antica della città versa ancora in condizioni di piena fatiscenza. Un giorno sarà un museo, scommetto. Ma il gusto coloniale dell’infilata di portici e della cupola della Catedral Metropolitana di sfondo è notevole, è posticcia, ovviamente, visto che l’hanno ricostruita tra gli Ottanta e i Novanta dopo un terremoto prima e un incendio poi. Parliamo del murale del grande artista Llort rimosso dal vescovo di sua propria iniziativa? No, meglio scendere nella cripta e rendere omaggio a Monsignor Romero, paladino dei diritti umani assassinato mentre predicava durante la guerra civile, a oggi il personaggio più amato nel paese. Anche Plaza Morazán è stata ripulita.

Tutto il centro verrà riqualificato, dice Fermín: il chilometro zero di El Salvador, le architetture art nouveau, la biblioteca nazionale in costruzione affidata ai cinesi, l’area del famoso Mercado Central, le linee gotiche che la gente non conosceva del Calvario. Prima era pericoloso, ora è tutto pedonale. Che dire? Noi daremmo un bel voto, a questa situazione, anche se le laterali popolari che resistono alla gentrificazione hanno tutto un loro fascino. Ma lo sappiamo che il processo non si ferma mai a metà, per accontentare gli uni e gli altri: è una delle tante leggi economiche per noi incomprensibili.

Un supermercato fa squarcio assoluto: file di pannolini, la coda al bancomat, un pacchetto personale di roba verde, che peccato non avere la tessera fedeltà della catena. L’escursione ora contempla la parte in auto: ascoltami, qui è una meraviglia, già dalla middle class del Barrio San Jacinto con la sua vegetazione spontanea, poi alle villette ripidamente collinari di Buena Vista che un tempo era di fatto una favela e ora è una delle zone più sicure della città.

Ci fermiamo ad ammirare il panorama della valle dove giace San Salvador. Questo a breve sarà il paese del surf, ma per ora punta ancora sul numero esagerato di vulcani, di cui molti attivi. E quello che tuttora può eruttare, di quei due, non è quello che sembra! Da qui si vedono anche dei giaguari dipinti sul sottopasso. Ok, questa non era essenziale, come informazione, anche perché ci passerò poi col bus. Ma ora tutta la traversata terminale della ex zona di produzione del caffè, da poco parco protetto alle pendici della città, regala emozioni a non finire, scorci, agavi, palme, rocce, a chiudere le piramidi rovesciate delle ambasciate americane tra i garage con comando elettronico, i sovrappassi pedonali e le insegne giganti dei ristoranti con parcheggio.

Durante il Covid l’Honduras chiese aiuto, Fermín spezza la narrativa con un colpo a effetto di quelli con cui amo arricchire le mie sensazioni spontanee e racconta la storiella dei vaccini spediti per direttissima senza che la gente del posto ne fosse a conoscenza, dogane, elicotteri, tir: ecco l’ospedale monumentale dove ospitarono in cura tanti honduregni. Sembra un palazzo presidenziale, da tutti quei vessilli bianco-blu che ondeggiano al vento; ma sì, sventolate pure bandiere, dentro di me.

Ho chiesto di essere lasciato davanti al museo, ma non ho specificato quale, e per la mia simpatica guida evidentemente la risposta poteva essere solo una. Io invece adesso mi sento come in un meme: avete presente, no? Museo di arte precolombiana? Mano sulla fronte davanti agli occhi, come a dire, ma nemmeno per sogno! Museo di arte moderna? Pollicione alzato! Prima però mi serve un caffè in terrazza, anche se è tardi per la colazione e ancora presto per il pranzo.

Cammino da solo, ormai, la mia paura è svanita, in fondo viviamo tutti sotto lo stesso sole, anche adesso che le nuvole sono andate a corteggiare altri grattacieli. Ci sono persino i manga, al MARTE, ma sono i colori quelli che cerchiamo, anche nell’arte figurativa, anche in mezzo alle visite guidate autoctone, anche tra i riflessi dei vetri che uccidono la nostra idea di foto ricordo. San Salvador, ti amo, lo sai. Tornerò, lo sai, tra pochi giorni. Ora regalami un’illusione di appartenenza, tra i gol della Martinica di fronte a un ceviche de camarones, o nella lista infinita di cocktail originali, tutti serviti nel loro bicchiere iconico sotto un porticato dalle mille luci dorate. Hanno decapitato un bambino?

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