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Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Sesta parte

Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi

Svegliarsi a un orario tardo e avere ancora del tempo da far passare non è una sensazione particolarmente piacevole: a volte l’attesa prolungata riempie d’ansia più di quanto non riesca a fare la fretta. La conferma del mio prechequeo è arrivata: dai, controlla ancora una volta di non aver cancellato per sbaglio la mail sul telefono! Kerim invece ci aveva scritto addirittura quando noi eravamo ancora in Guatemala, per sapere a che ora avrebbe dovuto far partire la sua escursione di un giorno intero alle città meravigliose.

Le basi per stare sereno ci sono, allora oggi mangiamo uova a colazione. Le conosci le bandiere o fai confusione? Quella del Guatemala è a righe verticali e non si sbaglia. Quella del Nicaragua ha uno strano simbolo massonico. L’Honduras è decorata con le cinque stelle. Per esclusione, l’altra delle quattro è quella di El Salvador. Ma le sfumature di blu sono tutte diverse tra loro e dai pennoni differiscono spesso anche dalla rappresentazione ufficiale in colori Pantone. Tutte si ispirano alla mia preferita, quella della repubblica federale dell’America Centrale: quindici anni da antenato, da madre comune di tutti questi stati. Los Altos invece non ce l’ha fatta a sopravvivere, peccato, ma alla fine è sempre la solita storia di Trieste e del Sikkim. E qui, c’è da dire, già solo a metà viaggio intuisco che la mia ingenua presunzione che voleva vedere questi paesi come un’unica proiezione sarà destinata a crollare miseramente, chiedendo scusa.

Sono nel sottoscala dello Sheraton con un’ora di anticipo: farò in tempo a vedere i ritardatari riempire d’inchiostro i loro formulari, gli anziani coprire con una maschera la loro paura, le famiglie salutarsi davanti ai due bus che si incrociano per le loro destinazioni opposte. Sbaglierò? No, dai, l’avranno letto il mio biglietto, mi hanno anche indicato dove sedermi. In basso, stavolta. Ma dove va, l’autista, dove va? Adesso appena ripassa il responsabile di bordo a consegnare le patatine e l’acqua minerale glielo chiedo: ma non posso farlo in maniera troppo aperta, del tipo dire: Tegucigalpa? Basterà domandare quanto tempo ci mette, che quello per Guatemala City è molto più breve. Sette ore e mezzo. Eh!

Ora vedi di incollarti al finestrino e passa alla prossima preoccupazione: vivendo nel futuro ci si fa dominare dall’ansia, ma il mio presente è sempre stato solo quello cinematografico. L’aeroporto! Come mai non sapevo che distava tre quarti d’ora da San Salvador, quando ho prenotato il volo? Avrei dovuto fare così in ogni caso, viste le recensioni pessime delle compagnie di bus sulla tratta Honduras-Nicaragua. Adesso ci passiamo, dallo scalo internazionale, lasciandolo sulla destra in mezzo alle foreste che nascondono le spiagge vicine: questo itinerario è lungo e lento, attraversa chilometri monocordi, sfiora villaggi di capanne sponsorizzate dalle compagnie telefoniche, ogni tanto dalle frasche spuntano vulcani verdi e lagune che chiamano la foto in movimento. Fallita, ovviamente.

Va bene, ci sono cinque o sei tra imprecisioni e refusi nel mio romanzo in self, ora che l’ho letto tutto, e nel frattempo il bus è arrivato a El Amatillo: i cani randagi riposano accovacciati sotto le bancarelle di street food, il murale alla parete riproduce tutti i vulcani del paese, le moto passano rombando con il loro carico di scatole di cartone, la gente a piedi attraversa la strada fino a un ufficio dove poter cambiare la valuta. E il solito controllo indolore della frontiera salvadoregna porta in un attimo dall’altra parte della barricata, dove solo a leggere il nome stampato sul bell’edificio coloniale azzurro ribolle il sangue nelle vene, e dire che il paesaggio è splendido, con quel letto fluviale dominato dai picchi arrotondati sulla sommità.

L’aveva rimarcato anche Carolina: ‘non avrai intenzione di andare anche a Tegucigalpa?’. Ovvio, anzi da sempre è la meta più agognata tra le quattro bandiere di questo viaggio, proprio per la sua nomea, e in parte anche per il mistero che la circonda, visto che non se ne sente parlare praticamente mai. Sono stati gli Haggard, in realtà, a farmi capire che la situazione stava migliorando. Ho visto la data all’interno della loro lunga tournée latino-americana, ed è stato un attimo: allora la città è sulla mappa, ho pensato. Una vecchia chiesa coloniale sulla Treccani di mia nonna e la vista con i grattacieli della ricerca su Google hanno fatto il resto.

E adesso si balla. Scendo con il mio classico portadocumenti rosso al collo, cammino con gli occhi a terra, schivando i tetti di lamiera. Il solito molestatore con in mano pacchi di una valuta di cui ignoro anche il nome prende di mira un cinese davanti a me: che bello per una volta non essere il più debole di tutta la comitiva! Addirittura, l’usciere mi spalanca la porta della dogana: la coda è disciplinata ma la ragazza al mio sportello mi fa lasciare le impronte digitali per ben tre volte. Due notti, mi fermerò, rispondo, con la mia bocca che si deforma in un sorriso ancora sospeso nell’ignoto.

Passaporto timbrato, sono in Honduras. Faccio appena a tempo a risalire sul bus che in un attimo si scatena l’inferno: quello che poi vivrò anche da casa mia a Milano, vento a trascinare polvere e oggetti, grandine di sassi, pioggia nebbiosa a togliere ogni semanticità di visibilità. In un attimo la strada paludosa è allagata, gli ultimi tre viaggiatori salgono completamente inzuppati e la meraviglia in arrivo è tale da sferrare coltellate emotive a ripetizione lungo gli splendidi chilometri paesaggistici della nuova strada RN112, appena completata. Le famose strade tutte a buche dell’Honduras, vero Lonely Planet? Cala la luce, diminuisce la pioggia, nel grigio del cielo che si mescola a quello delle nubi spuntano chiazze verdi di una bellezza inaudita: un viaggio interminabile nei meandri dei miei sentimenti più reconditi.

Il momento arriva, le luci di Tegucigalpa sugli schermi emozionali dalle alture di un passo di montagna e sale quel brivido che ti aspettavi, in fin dei conti, quello che riprende vita anche adesso nel narrare quel momento. Comayagüela, ci arriveremo, ora lo immagino che possa essere tu, il primo battito scomposto della capitale, tra i centri commerciali di grande dignità, le strade a due corsie, il solito accompagnamento firmato da aiuole, svincoli, ponti e statue. Il bus svolta, ho visto l’insegna dell’hotel da lontano, di fronte c’è anche una pupuseria, passa un ciclista con il casco, ma il bar dall’arredamento navale funziona meglio come location ideale per tutto questo hype, una Salvavida di ordinanza è la sola soluzione per brindare alla bandiera con un plato tipico. Calmare l’eccitazione adesso sarà dolce, in questa fantastica notte honduregna.

Che vista che c’è dalla stanza! Solo adesso, con la luce, posso fermarmi a contemplare la mia felicità racchiusa da un vetro: la collina con la statua, lo stadio nazionale, la bandiera che sventola, lo skyline di grattacieli e cupole sullo sfondo. Kerim parte subito alla grande: ha cinquant’anni anche lui, l’intesa sarà perfetta, già a partire dai suoi ricordi d’infanzia che trascinano subito in una città mitica: la prima tappa della nostra giornata è dedicata a Tegus, come la creanza vuole, come la storia reclama. Devo ammettere che le stradine ripide del Barrio La Leona, dove lui ha vissuto, dove c’era la prima storica ambasciata tedesca, dove oggi qualche runner si fa il giro della terrazza panoramica, hanno quell’appeal monumentale del recupero ancora possibile: sotto all’albero di mango che gli dava da mangiare al ritorno da scuola fermo il tempo in un’istantanea speranzosa. Il presidente è scappato, il presidente era contro la sua gente: e parte subito la questione spinosa della sicurezza.

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