Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Settima parte
Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi
‘Cosa ti hanno detto i tuoi amici e famigliari quando hai raccontato che venivi in Honduras?’ chiede, mentre parcheggia davanti a un murale che espone in mille colori tutte le attrattive del paese, dalla flora tropicale alle origini Lenca dello splendido nome della città. Vorrei un caffè, adesso, uno buono, uno che posso bere qui nel mini-centro commerciale ricavato da un vecchio edificio coloniale. Così apprendo la storia dei giornalisti pagati per diffondere notizie false sulla stampa internazionale, anche su San Pedro Sula, la città che per anni è stata considerata la più pericolosa al mondo.
Vedi? Sarebbe stato bello andarci, ecco. Kerim scuote la testa, per lui la Calle Peatonal è ancora migliorabile, se non altro come pulizia. Ma il giro del centro storico mi regala perle in successione: la più antica università del paese gemellata con il bianco delle chiese coloniali, Lempira ossia il mitico capo dei Lenca che tuttora vive nelle banconote, l’architettura funzionale dei palazzi governativi, la vecchia casa presidenziale con i suoi merli goticheggianti, il museo dell’identità nazionale con la consueta parata di ombrelli colorati a dare quel respiro ombreggiato alla riqualificazione terminata che ancora attende di essere inaugurata.
Andiamo a vedere quanta gente c’è a messa, nella splendida chiesa barocca de los Dolores, mentre la gente seduta fuori contempla lo scorrere lento delle ore e le statue donano colore a una facciata bianca ricamata su lino. Quante case museo ci sono da recuperare, nelle laterali dal classico fascino urbano contemporaneo: quella del grande stratega che disegnò gli Stati Uniti del Centroamerica è protetta con cura, le grondaie fanno pendant con le colonne, le massime di Morazán sono appese in cornice, l’azzurro di un sogno impossibile riposa sconfitto da un cavallo nell’immancabile quadro paesaggistico.
Al Parque Central ferve la consueta attività frenetica della popolazione di piccioni, la Cattedrale però è forse l’edificio più sobriamente bello di tutto il viaggio, con le sue colonne che chiedono di essere contate e ammirate. In cielo passa un aereo che lascia una traccia sonora e l’occasione è buona per ricordare lo sfortunato aeroporto cittadino, chiuso nel 2008 dopo un atterraggio andato lungo, proprio come poteva capitare a me, anche se qui la pista finiva nientemeno che in un burrone. E lo scalo nuovo di Palmerola l’hanno costruito gli americani per mascherare la loro nuova base militare: siamo alle solite con la narrazione, del resto la storia dei Contras l’abbiamo studiata e crediamo di sapere che venissero manovrati da qui contro il governo sandinista nicaraguense. Corsi e ricorsi, c’è sempre chi comanda e chi ubbidisce: da tempo abbiamo smesso di contestare regole accettate da tutti senza problemi, siamo troppo strani noi e adesso ormai lo sappiamo pure bene.
Ora la visita tocca un highlight, considerando le premesse narrate dalla guida, quando la luce fioca del comodino voleva individuare una posizione buona per il pernottamento: la città gemella di Comayagüela, da schivare a tutti i costi, con le sue strade definite con grande retorica terzomondista ‘polverose’ e piene di insidie. Per Kerim invece è solo una zona della città che ha problemi, sì, ma perché non arriva l’acqua: l’attraversiamo con grande e compassata deferenza, palazzi coloniali stinti e garage dove portare l’auto a riparare, che certe volte i fantasmi nascono e muoiono solo nella nostra testa.
Ancora un caffè? Perché no, meglio se in una libreria nei ricchi sobborghi collinari di Suyapa dove possiamo passare il tempo a vedere i vari SUV sbagliare la curva dell’accesso al McDonald’s, discutendo della corruzione che ha lasciato intere fermate di un nuovo sistema di metrobus veloce, prima di annunciare che i soldi per gli autobus erano finiti. Ma ora c’è Xiomara Castro, e forse si farà ispirare da quello che succede nel Salvador. Intanto noi ci proviamo proprio una bella baleada, che sembra solo una pupusa grande, anche se eccezionale, farcita di fagioli rossi e formaggio sbriciolato. Quindi perché contendere al paese vicino il diritto di prelazione su di un piatto tipico condiviso, quando se ne ha già uno 100% autoctono? Ricordate la disfida del pisco tra Cile e Perù? No, perché era narrata in due racconti diversi del mio secondo libro. Va bene, adesso, la collezione di istantanee riparte con un campo da calcetto sul tetto di un capannone industriale, un ospedale pediatrico tutto colorato, un edificio esageratamente grande che ospita la Banca Nazionale dell’Honduras, un vero luogo di preghiera nella splendida Basilica di Nostra Signora in stile neocoloniale: siamo i figli di un sogno, si direbbe, anche dai finestrini di un pick-up bianco.
Poi il programma cambia direzione, infila le pretese dei dintorni, delle località del turismo interno: le famigerate città meravigliose, Santa Lucia, Valle de Angeles e Cantarranas. Domani ho il bus alle cinque del mattino, lo sai Kerim? Il che vuol dire sveglia alle quattro, ansia nella hall deserta, uscire e rientrare dalle porte automatiche, cercare l’ufficio della Pullmantur, aspettare che si svegli il receptionist del turno di notte, mettersi in coda dietro agli anziani arrivati prima, sentire le storie di chi non può viaggiare perché ha dimenticato il passaporto.
Ecco, la prima città salta, perché c’è coda sulla strada, la faremo al ritorno, al ritorno faremo tutt’altra strada. Adesso vado a vedere in rete cosa ho perso. Però! E per la seconda dobbiamo rimanere incolonnati per quarantacinque minuti, mentre gli operai fanno passare a turno, del resto l’asfalto è franato e il traffico importante in questa domenica di relax. Kerim? Lo sai che domani mi aspetta il viaggio all’inverso, da Tegucigalpa fino a San Salvador? Come puoi immaginare anche tu, non sarà mai più la stessa cosa. Alla frontiera nemmeno vorranno più i miei dollari. E in quella birreria non sapranno che non sono un expat. Il gin tonic farà schifo, hai ragione. Ma ora non pensare di salvarti, dalle mie domande, tra le stradine in pavé di Valle de Angeles, quando uno scroscio di pioggia ci trascina al piano alto del ristorante popolare per divorare la vostra versione, meno asciutta te lo concedo, delle mie amate pupusas.
Ho capito, che a Roatan non ci vai, ci va già Luca. Dai, racconta perché vi chiamate catrachos, e gli altri si chiamano guanacos, chapines e pinoleros: lo dimenticherò subito, ma fa storia di comunità, mi sento sempre più a casa in questo Centro America. Spenderò troppo, domani sera, per sentire l’odore del mare con un’insalata di barbabietole; a proposito, che ne dite di questo mio viaggio che non ha lambito nemmeno un mare attraversando ben quattro paesi pieni di spiagge, voi che postate solo foto sotto l’ombrellone? Forza, Kerim, ci sono ancora per un po’, anche se la stanchezza avanza, per la prima volta capisco quanto avesse ragione mio zio quando disse che a cinquanta si comincia a sentire che qualcosa non va: portami a vedere tutti i murale che hanno trasformato un villaggio senza interesse (come è che l’hai chiamato tu in spagnolo?) in una destinazione turistica proprio là dove finisce la valle, a Cantarranas.
Poi lungo il lento ritorno con il sole che cala oltre le colline mi regalerai ancora la perla di El Zamorano, l’università di agraria più prestigiosa al mondo, poche case cresciute attorno a un campus infinito circondato da mura invalicabili per graduatoria. Sì, stasera farò la fiesta, al bar con piscina dell’hotel, assieme ai giovani rampolli della capitale, anche se piove, anche se hanno finito la birra e toccherà bere un Pirates, la versione locale del rum, per fissare ogni attimo della serata nell’album dei miei ricordi preferiti.