Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Nona e ultima parte
Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi
Tutto il discorso politico prima o poi va affrontato, è inevitabile. Mi aspettavo qualcosa di diverso, pero Nica no es Cuba! Il taxi sta percorrendo a ritroso le sensazioni di ieri, e l’assenza di murales commemorativi sui muri delle strade porta alla più semplice delle mie riflessioni da spettatore: l’ingresso in Managua, tramite vialoni alberati di traffico controllato, concessionarie auto e scuole internazionali, è molto conforme alle aspettative universali.
Mi cambiano stanza addirittura due volte, all’hotel ai Planes de Altamira, ma non mi tange granché, è il pergolato decorato con minutaglia coloniale a impossessarsi di questo momento d’attesa. Torna persino un ultimo bagliore di stress, quando al superare l’ora prefissata ancora non si palesa la guida: poi eccolo, parcheggia la sua utilitaria e scende a stringere la mano con tanto di maglietta griffata del piccolo tour operator locale.
Quarant’anni, giustamente, mancava solo questa opzione alle decadi: sembra leggermente borderline, il buon David, e me ne regala subito una prova immediata, fuggendo da un posto di blocco che gli aveva intimato l’alt davanti a uno dei palazzi della famiglia più influente del Nicaragua, i Pellas. Tutta la tiritera di disapprovazione che riserva alla polizia sarà indice di dissenso, immagino, mentre la prima tappa della giornata si annuncia tra pick-up e cartelloni pubblicitari giganteschi nel suggestivo mercato coperto Ricardo Huembes.
Fiori finti, pignatte gigantesche, ceramica colorata, salsicce appese, cappelli impilati, dolci rosa, sigari. La città è stata distrutta non troppo tempo fa da un terremoto e la cosa si nota ancora per via dei tanti spazi vuoti ai margini delle strade larghe, ma la mia testa è impegnata a pensare ad altro: quindi l’opinione contraria è possibile, qui. Ora devo dare il mio meglio per rendere l’arte astratta della nuova Catedral Metropolitana: quadrati grigi, cerchi neri, archi gialli, cupole bianche, altro che architerror!
Un parcheggio, la tariffa è maggiorata per lo straniero, ma non è certo l’unico caso, David si agita per la brutta figura governativa così provo a tendergli la trappola definitiva: chi è quella sagoma lassù sulla collina? Ma il suo giudizio su Sandino è assolutamente positivo, con venature in ogni caso super partes: intanto mi gusto la perla del suo Tour Managua, cioè la riserva naturale della Laguna di Tiscapa. Un posto assolutamente fuori dall’ordinario, dove camminare tra le frasche e gli animali selvatici ammirando le acque che passano dall’azzurro al verde e viceversa: un vulcano che fece saltare la sua cima nei secoli dei secoli, lasciandosi dietro il lago nel cratere.
Questo era il regno privato di Somoza, prima che fosse confiscato dal governo: ecco perché ora tutti i presidenti del Centro America si costruiscono le residenze lontano dal centro, così che la gente non li possa più andare a rovesciare. E noi ora ci arriviamo nel cuore pulsante di Managua: la piramide bianca del Crowne Plaza, il gigantesco faccione di Chavez, le bancarelle di magliette, sciarpe e bandiere targate FSLN, i parchi che circondano gli edifici ministeriali, la campana della pace, le colonne sottili del Teatro Nacional che danno grande importanza alla cultura.
Il sole picchia, ma David deve forzatamente percorrere il cerchio minimo della grande piazza: dagli indigeni raffigurati nelle fontane alla piscinetta del chilometro zero, dalle telefonate con i suoi clienti del secondo lavoro fino ai vigilanti che controllano che nessuno cerchi di entrare nel rudere perfettamente in piedi della vecchia Catedral, torri campanarie gemelle e un motto portato avanti da uno striscione: todo con amor, todo por amor.
Si scatena il delirio degli alberi colorati che appaiono a ogni angolo, sul lungolago del monumento a Bolivar, tra il vecchio aereo che fa da attrazione principale al parco giochi per bambini e un plastico che riproduce la città negli anni Settanta. Qui c’è anche la Casa Museo del poeta Rubén Dario, ben inquadrata in un isolato di ricostruzione storica esemplare, tra i cancelli che scavalchiamo, un letto, i fucili, una chiesa in miniatura e gli inservienti che dormono all’ombra dell’ennesimo porticato di legno.
Va bene David, adesso sorprendimi, con la tua orazione pro-Ortega, anzi Daniel, come lo chiami tu in maniera affettuosa: quindi lavora bene, sta portando ordine e progresso, la gente lavora, esce di casa, va a passeggiare sul Malecón da iconografia della coppietta adolescente, magari si beve anche una birretta, come facciamo noi. E poi sì, grazie per avermi ricordato il significato di pulperia, che non è un ristorante dove si cucina il polpo, ma una sorta di magazin mixt che vende un po’ di tutto: l’avevo rimosso, dal viaggio in Costa Rica.
Ormai sono talmente a mio agio che quando chiudi a chiave la porta perché i lavavetri rubano i telefoni, così dici, nemmeno mi sembra vero. Salire e scendere dallo spettro delle proprie paure: ecco a cosa servono certe volte i viaggi. Mi incoraggi, ai saluti, dicendomi che attorno al mio hotel c’è ogni tipo di divertimenti: qualcosa proverò a farlo, ma sono anche io ai titoli di coda e non vorrei avere guai proprio ora che mi fermo alla reception a prenotare il taxi per domani, che piove a dirotto, che mi devono prestare un ombrello, che scavallo la coda di chi esce dal lavoro per gustarmi un locale con un bel bancone nero e lungo assaporando una Muy Muy artigianale. Muy bien, oserei dire.
Ecco, c’è un giardino ombreggiato che sembra una fiera popolana di paese: lampadine già illuminate che pendono dai fili, tavoli di plastica verde, panchine in legno dipinte di azzurro, la radio che passa le hit del mood latino. Forse adesso è giunta l’ora di assaggiare il Flor de Caña, magari anche nella versione reserva. Poi ti arriva a sorpresa, mentre attraversi la strada per la tua cena battezzata, la tua nuova ossessione: OMG, domani devo fare il check-in in aeroporto!