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Intervista all’autrice e regista Brillante Massaro sull’ultimo romanzo pubblicato “Malanotte e figlia femmina”

È con il primo caffè della giornata che si mette in moto per la protagonista di questa storia, ormai arrivata all’età dei bilanci, una macchina del tempo in grado di generare ricordi. Nata in una malanotte che partorisce solo figlie femmine, si rende presto conto di aver subìto un imprinting familiare che l’ha fatta sentire sempre sbagliata. Per essere accettata si infila in un contenitore pensato per accogliere un maschio, che le sta però stretto. Si ribella, esce dai confini disegnati per lei, e si scrolla di dosso le convinzioni limitanti che l’hanno forgiata. Scopre così la sua voce, ma si ritrova anche nuda, esposta alle intemperie della memoria, senza più un guscio che la ripari, ma felice di riconoscersi Femmina senza più nessuna costola da ringraziare per stare al mondo.

Brillante Massaro è nata a San Nicola La Strada (CE) nel 1953. Docente in pensione, per decenni si è occupata di formazione in ambito metodologico-didattico e ha pubblicato articoli su riviste specializzate di educazione linguistica. Con il Gruppo editoriale Raffaello sono stati dati alle stampe due testi di narrativa scolastica per ragazzi: Emozioni in gioco (2015) e A che gioco giochiamo (2018). Numerosi racconti sono inoltre apparsi sia on line che in cartaceo (raccolta di racconti).

Partendo dalla scelta del titolo, parlaci di cosa ha ispirato la scrittura di Malanotte e figlia femmina

Malanotte e figlia femmina è un detto napoletano. La brutta nottata, quella buia e tempestosa, si accompagna sempre ad un evento sfortunato: la nascita di una figlia femmina. Non può che nascere in una malanotte una femmina e non solo in passato, ancora oggi ancora si dice: auguri e figli maschi, ancora oggi le donne devono combattere per rivendicare i propri diritti, anche quelli che sembrano più che acquisiti perché in una società di stampo maschilista non si è mai alla pari, non si è mai abbastanza. Questa l’idea di fondo che ha animato il romanzo, una esplorazione emotiva per tentate di capire perché e come sono passata dall’ascoltare gli altri per essere accettata, dal mendicare amore, all’ascoltare me stessa.

Centrale è il tema della “ribellione” nell’evoluzione della protagonista: in che modo la volontà di cambiamento ha modificato la visione di sé stessa e del mondo circostante?

Ribellarsi, disobbedire è un’arma molto potente, destabilizza gli altri che si aspettano che tu reciti il copione che hanno costruito per te, ma non è senza conseguenze, il senso di colpa ci accompagna sempre quando rompiamo gli schemi e usciamo dagli stereotipi. Nessuna metamorfosi è indolore, ma se la scrittura ha il compito di smascherarci, noi abbiamo l’obbligo di rivelarci a noi stessi, senza se e senza ma, di mostrarci nudi, di frugare nelle nostre crepe, di guardare in faccia la rabbia e riconoscerla. “Quando sarò tutta una crepa sarò di nuovo intera” non a caso questa citazione di Chandra Livia Candiani apre il capitolo l’Impotenza appresa perché non si impara solo a credere in sé stessi, s’impara anche, quando arrivano continue disconferme, a essere impotenti, a credere nella propria incapacità.  E bisogna darsi fuoco, e bruciare per poi ripartire da lì, dalle proprie ceneri.

Qual è il ruolo dell’ambientazione nel fornire contesto storico, sociale o culturale alla trama del romanzo?

L’ambientazione non è solo lo sfondo culturale della storia, non a caso la scrittrice Marilena Lucente, che ha curato la postfazione del libro, parla di: curtiglio- mondo. Quell’Italia contadina fatta di cortili di paese, che a seguito del boom economico, si mette il vestito della festa, cambia pelle e diventa cittadina, è anch’essa voce narrante. I cortili di paese con le loro voci, con i richiami da una finestra all’altra, con la condivisione di un quotidiano bello o brutto che sia, definiscono il contesto storico culturale del romanzo e nel contempo  “vestono” i personaggi, li accompagnano nella loro metamorfosi, modificano le loro abitudini, le modalità comunicative e reattive: “Nel quartino di città le voci rimasero sole, avevano più spazio, ma spesso in quel largo si perdevano, non sapevano aspettarsi, si anticipavano o si inseguivano, avevano perso la capacità di andare all’unisono”.

Quale messaggio hai voluto trasmettere ai lettori?

Non penso di poter trasmettere alcun messaggio, ho voluto solo raccontare una storia fatta di alti e bassi come la vita, di speranze e disincanti, di lotta a denti stretti, di sensi di colpa che scompaiono e riappaiono sotto altre vesti, tutto senza arrendersi mai. Forse l’invito che farei ai lettori è di non arrendersi, la costruzione di noi stessi dura tutta la vita, non abbiamo certezze, e quelle poche che abbiamo non sono mai stabili, mutano col tempo, sono degli arcipelaghi e noi dobbiamo continuare a navigare a vista, cambiando spesso la rotta alla ricerca di un nostro equilibrio, sia pur precario, un nostro centro di gravità anche se è solo momentaneamente permanente.

Come il tuo ruolo di regista e sceneggiatrice ha influenzato lo stile e la struttura della tua scrittura narrativa?

Penso l’abbia influenzato molto, soprattutto nella struttura dei dialoghi, quando si scrive per il teatro i dialoghi devono essere serrati, senza fronzoli, diretti, devono conservare la spontaneità del parlato, anche se è poco curato o ripetitivo. Nei dialoghi spesso ci si accavalla, si lascia qualche periodo sospeso, un dialogo è tanto più veritiero quanto più conserva la struttura del parlato spontaneo, senza paura di anacoluti o frasi sospese.  Inoltre quando scrivo per il teatro decido cosa mettere in luce e cosa invece lasciare in ombra, immagino la scena, ne colgo i particolari: come la luce si posa su un volto e ne modifica o ne potenzia quella particolare espressione, nel romanzo ho provato a fare la stessa cosa, ad essere molto visiva, quasi cinematografica.

Definisci Malanotte e figlia femmina con tre aggettivi

È difficile, in prima battuta direi: Viscerale, ironico, combattivo. Ma anche autentico, rabbioso e a tratti irriverente. Non mi piacciono i confini, proprio non ce la faccio a stare nei margini stabiliti, mi riconosco in alcuni aggettivi ma poi spuntano gli altri che chiedono la parola e rivendicano il diritto all’esistenza.

Come ti senti ora che il libro è stato pubblicato e condiviso con il pubblico?

L’ho lasciato andare, lo guardo da lontano per accertarmi che imbocchi la sua strada e che sappia dove mettere i piedi, ma non è più mio. La condivisione è rinuncia alla paternità. Ogni lettore riscriverà il libro a suo modo suo. Quando leggiamo, anche solo avere un ritmo di lettura piuttosto che un altro, soffermarsi su alcuni punti e sorvolarne altri, ritornare indietro a rileggere per fissare meglio un passaggio che ci era piaciuto, mettere una nostra nota a margine, è ridare un nuovo corpo all’opera. Chi scrive rende visibile solo una parte della storia, quella che gli sta più a cuore, chi legge completa l’opera con il proprio immaginario, con il proprio ritmo di lettura, con il proprio background culturale. Se chi scrive vuole intenzionalmente rallentare il ritmo narrativo, chi legge può invertire la rotta accelerandolo e attribuendo al testo stesso, nuove promesse di senso.

Hai già in mente progetti futuri di scrittura o nuove storie che vorresti raccontare?

Non ancora, anche se devo dire mi interessano le tematiche al femminile, sono sempre più stupita da come le donne facciano ricorso alle proprie risorse interne per imporre la propria voce in una società che le vorrebbe mute. La donna è anche al centro dei miei lavori teatrali, l’ultimo spettacolo teatrale si chiama Kintsugi e richiama la capacità di resilienza delle donne, la capacità di ricucire le proprie ferite non nascondendole ma mostrandole, saldandole con l’oro per renderle ancora più visibili e preziose perché ci hanno rese quello che siamo.

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