Intervista a Novita Amadei: “Da Solo” un racconto di coraggio e speranza nel cuore della guerra in Ucraina
Uffici Stampa Nazionali incontra Novita Amadei giornalista pubblicista e consulente per l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), si occupa di asilo politico e migrazioni internazionali. In questa intervista avremo l’opportunità di parlare del suo ultimo romanzo, Da solo, edito da Neri Pozza (2025).
Da solo è ispirato alla storia vera di un bambino in fuga dalla guerra in Ucraina. Cosa l’ha spinta a raccontare questa vicenda?
Oltre alla scrittura, lavoro nell’ambito delle migrazioni e dell’asilo politico, e in queste vesti, agli inizi degli anni 2000, mi sono occupata della prima grande ondata migratoria di donne dall’Est Europa affrontando, fra le altre tematiche, quella della maternità a distanza. Sono rimasta legata a molte di loro e, quando mi è stato suggerito di raccontare in una storia la guerra russo-ucraina, ho pensato ad Hasan e a sua mamma Yulia, di cui avevo letto sui giornali. Anche questa vicenda racconta di un abbandono materno, ma specularmente, perché a partire non è la mamma – per lavoro – ma il figlio – da solo.
Quello che mi aveva toccato di più, però, non era stato tanto il coraggio del piccolo eroe, quanto quello della mamma, che per salvare lui aveva accettato il rischio della separazione, restando a casa con la nonna ammalata. Ma in fondo, come dice il personaggio secondario della vicina di casa, una madre sa tenere insieme l’amore e il mondo anche quando lo sforzo è spaventoso. Ci saranno delle perdite, per forza, niente è dato per niente, e sembrerà senza speranza. La contraddizione, del resto, è naturale come l’assenza nell’amore.
Jarek, il protagonista, è un bambino costretto a crescere troppo in fretta. Come ha costruito la sua evoluzione psicologica, soprattutto considerando che si ritrova improvvisamente a dover affrontare la guerra e la solitudine?
Jarek è un bambino di nove anni che, come tutti i bambini della sua età, non è in grado di separare in modo netto il mondo della realtà da quello dell’immaginazione: confronta la guerra che si combatte nel suo Paese con quella che vede nei film o che gioca coi suoi amici, e affronta la paura della fuga con una pistola giocattolo o distraendosi con giochi di fantasia. Nella sua logica infantile, iperrealismo, ingenuità, fantasticheria e dubbio fanno tutt’uno col bisogno di sicurezza, di protezione, di quotidianità per scoprire, alla fine, che verità finzionale e verità fattuale non sono esclusive e possono diventare risorsa l’una per l’altra.
Scrivere un libro ambientato durante un conflitto così attuale richiede una comprensione profonda degli eventi. Come ha affrontato il lavoro di ricerca e quali fonti le sono state più utili?
Seguo la situazione politica e la popolazione ucraina in Europa da anni ormai, ho raccolto moltissime testimonianze delle prime migranti ucraine in Italia, agli inizi degli anni 2000, e ho intervistato vari rifugiati che, in questi anni, sono scappati dalla guerra. Il mio ultimo viaggio in Ucraina risale alla primavera scorsa, a due anni e mezzo dal conflitto. Mi sono avvicinata ai territori da dove vengono i miei personaggi, devastati dall’occupazione russa e poi liberati. Il bambino della mia storia e sua mamma, nel frattempo, si erano messi in salvo a Bratislava ed è lì che sono andata a intervistarli. Il loro racconto è riportato in postfazione al libro, per quel rimando di realtà e finzione che attraversa e giustifica il romanzo e che lascia loro l’ultima parola.
Il suo è un romanzo che parla di sopravvivenza, ma anche di speranza. Come pensa che questi due elementi si intreccino nelle esperienze dei personaggi, soprattutto in situazioni di estrema difficoltà?
L’abitudine all’odio e l’esaltazione della violenza mettono in ombra storie di sopravvivenza e di resistenza che pure esistono e sono numerose. Se il male punta solo alla fine, infatti, il bene ha un profilo polimorfo, non è mai uguale a sé stesso, mai dato una volta per tutte e i personaggi di questo libro ne sono un esempio. Ciascuno di loro punta istintivamente alla sopravvivenza, aggrappandosi alla speranza con le unghie e con i denti, gli adulti secondo logiche adulte, i bambini secondo logiche bambine stravaganti. Eppure, il viaggio è lo stesso, verso la vita.
Cosa spera che resti impresso nella mente e nel cuore di chi legge, soprattutto in un momento storico così delicato e pieno di incertezze?
Vorrei che rimanesse l’impressione che al racconto della guerra – alla manipolazione storica, la propaganda, l’allarmismo e il disfattismo – è possibile affiancare una narrativa positiva, perché situazioni di violenza inaudita non impediscono storie di salvezza e pace come quella di cui sono portatori i personaggi di questo romanzo. Siamo abituati a circoscrivere la pace nel quadro della cessazione delle ostilità, degli interventi diplomatici e umanitari o nella ricostruzione post-bellica, quando invece la pace è parte in causa di ogni scelta, della minima relazione, perché, come suggerisce un altro personaggio secondario del romanzo – la nonna – la guerra non è una fatalità, è un delitto che si può scongiurare, che si deve scongiurare in nome dell’essere umano e della sua sacralità.