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L’istanza di nullità del trasferimento non si trascrive in conservatoria

Nei pubblici registri possono trovare accoglimento le sole domande volte a far riconoscere la nullità o l'annullabilità di un atto negoziale e non già i vizi di qualsiasi "atto"

Roma – Una domanda giudiziale che richieda al giudice di accertare la nullità di un decreto di trasferimento non può essere trascritta in conservatoria. Lo ha confermato il tribunale di Terni con un decreto del 1° febbraio 2023 (procedimento 1285/2022), confermando come al punto n. 6 dell’articolo 2652 del codice civile debba essere applicata un’interpretazione restrittiva: nei pubblici registri possono trovare accoglimento le sole domande volte a far riconoscere la nullità o l’annullabilità di un atto negoziale, e non già i vizi di qualsiasi “atto” come parrebbe invece suggerire la lettera della disposizione.
La pronuncia conferma una linea giurisprudenziale già percorsa, tra gli altri, dal tribunale di Forlì con il decreto n. 7057 del 22 dicembre 2021. In quel caso, il reclamante intendeva trascrivere un’opposizione a decreto ingiuntivo.

La tesi del ricorrente
Secondo la parte attrice, la domanda volta a far dichiarare la nullità di un decreto di trasferimento doveva invece ricevere pubblicità nei registri della conservatoria di Terni, dal momento che il citato punto n. 6 dell’articolo 2652 del codice civile ammette la trascrizione di domande giudiziali che eccepiscono i vizi degli “atti soggetti a trascrizione”.
In apparenza, è del tutto evidente che il decreto di trasferimento possa qualificarsi come un “atto soggetto a trascrizione”, sia in quanto frutto della volontà dell’uomo – e quindi non qualificabile come un mero “fatto” – sia in quanto trascrivibile ai sensi dell’articolo 586 cpc, dove si afferma che “il decreto (…) costituisce titolo per la trascrizione della vendita sui libri fondiari e titolo esecutivo per il rilascio“.
Per il ricorrente, inoltre, il testo dell’articolo 2652 n. 6 del codice civile sembra richiamare alla lettera l’articolo 2643 codice civile, rubricato proprio “atti soggetti a trascrizione”: qui, al punto 6, sono espressamente inclusi i “provvedimenti con i quali nell’esecuzione forzata si trasferiscono la proprietà di beni immobili o altri diritti reali immobiliari“.
Il conservatore di Terni, invece, aveva opposto una riserva, ravvisando l’esistenza di “gravi e fondati dubbi in merito alla trascrivibilità, in quanto le domande di nullità soggette a trascrizione ai sensi dell’art. 2652 n. 6 c.c. sono soltanto quelle relative ad atti negoziali“. La tesi è stata accolta dal tribunale, che si è pronunciato in volontaria giurisdizione.

La ratio
Perché non può essere accolta un’interpretazione letterale della disposizione, laddove la legge afferma che “si devono trascrivere le domande dirette far dichiarare la nullità o a far pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione“?
Il primo motivo è di ordine sistematico: l’articolo 2652 cc, come noto, contiene un’elencazione categorica delle domande giudiziali suscettibili di trascrizione.
Fermo restando il principio generale di tassatività che sancisce come la pubblicità immobiliare in generale possa essere consentita solo ed esclusivamente nei casi delineati della normativa, la giurisprudenza di merito e di legittimità ha più volte chiarito come nel caso specifico della domanda giudiziale si debba prediligere un’interpretazione particolarmente restrittiva.
Quello delle domande giudiziali trascrivibili, del resto, è un numerus clausus normativamente sancito come tale per evitare un abuso dello strumento della pubblicità immobiliare nella fase introduttiva del processo; fase nella quale, evidentemente, la bontà delle richieste avanzate dall’attore non è ancora stata sottoposta al vaglio dell’autorità giudiziari, e si profila l’esigenza di contemperare la prevenzione del rischio che il convenuto possa spogliarsi dell’immobile con l’emersione di un pregiudizio alle sue libertà economiche a fronte della trascrizione di una domanda potenzialmente infondata.

La normativa
Storicamente, la nozione di “negozio giuridico” è caratteristica della tradizione legale tedesca, e non trova alcun riscontro nel codice civile italiano, dove compare soltanto il macroinsieme degli “atti” (fenomeni frutto della volontà dell’uomo) e il più ristretto sottoinsieme dei contratti (accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale).
In mancanza di quest’importante categoria intermedia, non di rado il legislatore del 1942 utilizza la parola “atti” con differenti accezioni, che devono essere interpretate non già in maniera unilaterale, bensì alla luce del contesto.
Nel caso dell’articolo 2652 del codice civile – osserva il tribunale di Terni – “il legislatore ha utilizzato in modo differente il lemma ‘atti’ e quello ‘provvedimenti’ (cfr. punto n. 9), suggerendo una distinzione concettuale che svanirebbe accedendo all’interpretazione prospettata dal reclamante“. La medesima distinzione, per inciso, ricorre anche nell’articolo 2643 ai numeri 5 e 6.
Come se non bastasse, l’articolo 2652 n. 6 del codice civile – con riferimento agli “atti” – parla di nullità e annullabilità, che in realtà sono due patologie tipiche proprio dei negozi: non essendo frutto di consenso, i provvedimenti giurisdizionali non possono essere viziati da annullabilità, ma soltanto da nullità.

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