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Gli ultimi giorni di Lorenzo Zucchi – Quarta parte

Un racconto inedito a puntate dello scrittore Lorenzo Zucchi

Ecco, ecco. Una specie di consapevolezza cerebrale di fondo mi desta pochi minuti prima del tempo, anche oggi: chissà cosa direbbe Castaneda al riguardo. Serve la mascherina? Quello ha la mascherina. Anche quella ha la mascherina. No, quello, no. Al diavolo, ora attacchiamo l’adesivo alla valigia e saliamo al piano alto, abbiamo prenotato il grande schermo della visuale completa: il bus parte che fa già chiaro, destinazione San Salvador.

Ci crediamo, quando l’assistente donna ci aiuta a settare il telefono sul Wi-Fi? Due ragazze salvadoregne se la dormono a fianco a me sulle colline dell’uscita dalla città, sulle strade larghe dei sobborghi industriali ricchi, nei tratti in cui la carreggiata della Panamericana si restringe invasa dalla vegetazione spontanea. La dogana non può che essere la mia prossima preoccupazione: scendo tra i primi, ignorando il richiamo aggressivo dei cambiamonete con pacchi di dollari in mano, il timbro in uscita dal Guatemala arriva facile. Ora di là, che succederà? ‘E poi presidenti influencer con l’ossessione del bitcoin’, così declama quel podcast che se la tira al riguardo di Nayib Bukele, l’attuale presidente di questo piccolo stato.

Il ponte sul ruscello attraversato dal pullman reca un cartello azzurro con su scritto ‘Bienvenidos a El Salvador’: qui il tremore che mi pervade è reale e trova stabilità solo quando il compassato agente di frontiera sale a controllare i documenti. Non si può andare in bagno, mangiare, guardare il telefono, durante l’ispezione. Stranamente, non marchiano a fuoco le pagine dell’ufficialità e per questo la mia simpatia immediata cresce: faranno tutto a PC? In fondo, l’unica vera cosa importante è essere qua, e notare come il livello medio delle campagne sia più che dignitoso.

Devo leggere la guida, adesso, e mi perdo un po’ di panorami, anche se il percorso evita con precisione le attrattive possibili lungo la strada. Piuttosto, il ganglio della metropoli dei vulcani ci inghiotte in fretta e il nostro cuore si riempie a metà di gioia, nelle rotonde dei centri commerciali di Santa Tecla, sui viali commerciali a due corsie di Ciudad Merliot o all’ennesimo cantiere di palazzina residenziale a Nuevo Cuscatlán. Sì, solo a metà, perché ora appena scesi bisogna correre a confermare il nostro viaggio in Honduras: la mail non è arrivata, ho controllato più volte lo spam. Mi restituiscono i biglietti già stampati e una raccomandazione: un giorno prima della partenza, c’è da compilare il prechequeo online. Stress, stress. Sarà lungo, complicato, chiederanno documenti da caricare. Stress, stress. Ma ora con il trolley devo farmi un pezzo di strada, che qui l’hotel dal quale parte la Pullmantur costa troppo per il mio budget. Un militare saluta.

Quel monumento a mosaico rappresenta la guerra civile, chiaramente. Poi mi faccio il ripassino di storia, promesso, ora però devo passare la gelateria dove rovesciano il cioccolato sulle banane. Arriverà una camionetta a sgozzarmi? Mia figlia si è montata troppo con le mie storie demenziali. Di là dalla strada c’è un food truck, ma non mi ispira per bere la prima birra della bandiera, in fondo l’hotel è qui, all’angolo della mia paranoia, anche se non farà il check-in ancora per molte ore. Datemi una pupusa, allora, il povero piatto nazionale che ho amato al ristorante a Milano; punto una pupuseria sulla mappa, all’ombra del mio cuore che batte forte. Ma non c’è, ma non c’è, il ristorante! Scoprirò poi che fa solo consegne da asporto: non male come idea, andrebbe esplorata.

Su, su, rilassati: tra queste villette nel verde della Colonia San Benito staziona una guardia armata ogni cento metri. Ho sudato, lo ammetto. E il museo è chiuso. Va bene, allora mi concederò ai tacos: quel piccolo locale emana quotidianità da salone per le unghie, caffetteria vegana, pasticceria francese, parrucchieri di grido. Il simpatico proprietario sembra che lo sappia, che sono appena arrivato in città e che amerò questo posto alla follia, come quella casa dove sarò sempre pronto a tornare come se non fosse mai passato nemmeno un giorno. Mi consiglia la combo giusta, dando per scontata la birra grande della Pilsener, un’altra icona locale da scannerizzare per trasmettere stimoli di felicità al mio emisfero sinistro impegnato a tentare di pensare in castigliano.

E ora andrò a cercare del freddo per il letto, come dice mia madre? No, no, ora aziono la manopola della doccia e faccio partire su YouTube il video di ‘El Salvador’ dei vecchi leoncini bianchi, che ben rappresentano la mia eterna adolescenza. Il chitarrino all’inizio non me lo ricordavo, ma gli anni che ho passato a desiderare di venire qui sono stati tanti: altro che prendere nove mesi di ferie e girare il mondo, così non mi darebbe mai le stesse emozioni. C’è bisogno di pause. Di pause e di ripartenze. Ora vaghiamo un po’ per i corridoi vuoti dell’ennesimo mall ancora vuoto di ricchezze, i grattacieli danno quel sapore di vetro al pomeriggio che sta scivolando, le mura di cinta delle ambasciate segnalano una zona messa in sicurezza, anche se le auto in effetti non si fermano sulle strisce pedonali gialle. Una birra, che dite? Magari due, visto che i tappi sono diversi, y que viva Farabundo Martì! E poi finalmente loro, las pupusas. Ne mangerei in continuazione, non sorprende che adesso stia scrivendo questo racconto a digiuno per compensazione: il locale è intimo, aperto sulla strada della clientela abituale, sotto le stelle che stanno per colorare il mio cielo.

Pioverà, più tardi, ma quel pub basico rappresenta proprio il mio ideale di serata, a osservare come si muovono le pedine: venditori di ombrelli, giacche e cravatte, obesità condivise, uniformi nere, rimmel come conseguenza. Dicono che uno dei grandi pregi della città sia quello di poterla visitare senza altri turisti.

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