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Raddoppio dei termini di accertamento tributario, riflessi sui soci “per trasparenza”

ROMA – In tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini (articolo 43, comma 3, del Dpr n. 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr n. 633/1972 ratione temporis) presupponeva unicamente l’obbligo di denuncia penale e non anche la sua effettiva presentazione. Con l’ordinanza n. 27026 del 18 ottobre 2024 la Corte di cassazione ha affermato che nel caso di raddoppio dei termini per l’accertamento nei confronti di una società in nome collettivo ne deriva, ope legis, il raddoppio dei termini per l’accertamento nei confronti dei soci.Di conseguenza è valido l’atto impositivo esteso ai soci anche se la ripresa a tassazione nei confronti della società si sia risolta in un annullamento.

La questione all’esame della Suprema corte muove dall’impugnazione dell’atto impositivo notificato a una società, all’epoca dei fatti contestati costituita nella forma di società in nome collettivo, con distinti ricorsi da parte dei due soci e della società stessa.

A seguito di un processo verbale di constatazione emesso nei confronti della società in nome collettivo per disconoscimento di costi dedotti e conseguente maggior reddito ricostruito in capo alla società, la maggiore imposta veniva recuperata in capo ai due soci, proporzionalmente alla loro partecipazione societaria.

Per quanto qui di interesse, tra i numerosi motivi di ricorso, i soci eccepivano l’inapplicabilità alla fattispecie in esame della disciplina sul raddoppio dei termini con conseguente intervenuta decadenza del potere impositivo ai sensi dell’articolo 43 del Dpr n. 600/1973 vigente prima della revisione dell’articolo operata con la legge di Stabilità 2016, che successivamente segnò il superamento della disciplina.

In particolare, i soci lamentavano che, in concreto, nessuna denuncia penale fosse stata presentata nei confronti degli stessi, negando che la denuncia o la sussistenza di fatti astrattamente di rilevanza penale nei confronti della società comporti il raddoppio dei termini per la ripresa a tassazione, anche nei confronti dei soci.

La questione posta offre alla Corte di cassazione lo spunto per ribadire e precisare la disciplina del raddoppio dei termini per l’adozione dell’atto impositivo.

Come è noto, per effetto delle modifiche apportate dall’articolo 37, comma 24, del Dl n. 223/2006, convertito in legge n. 248/2006, all’articolo 43 del Dpr n. 600/1973, dopo il secondo comma, è stato previsto che“In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.

Parallelamente, il legislatore è intervenuto ai fini Iva: infatti, il comma 25 del citato Dl n.223/2006, ha inserito, all’articolo 57 del Dpr n.633/1972, dopo il secondo comma, lo stesso capoverso.

Successivamente, l’articolo 2, comma 1, del Dlgs n. 128/2015, ha aggiunto all’articolo 43, comma 3, del Dpr n. 600/1973, un ultimo periodo, precisando che “Il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti”.

Allo stesso modo, il legislatore è intervenuto con il comma 2, dell’articolo 2, del Dlgs.n.128/2015, sull’articolo 57, terzo comma, del Dpr n. 633/1972, aggiungendo, in fine, lo stesso periodo inserito nella norma reddituale.

In sintesi, per gli atti notificati a partire dal 2 settembre 2015, data di entrata in vigore del Dlgs n. 128/2015, il raddoppio dei termini ha operato solo nel caso in cui la denuncia, dell’Amministrazione finanziaria o della Guardia di finanza, fosse inoltrata entro i termini ordinari.

Successivamente, la disposizione è stata riproposta all’articolo 1, comma 132, della legge n. 102/2015.

In sintesi, in tema di accertamento operava il “raddoppio dei termini” previsti dall’articolo 43 del Dpr n. 600/1973 quando le violazioni delle disposizioni tributarie sono presidiate da sanzioni penali.

Nel caso in esame, il processo verbale di constatazione, del 16 dicembre 2010, aveva ad oggetto gli adempimenti fiscali per gli anni di imposta dal 2004 al 2009, estesi poi anche all’anno 2003.

La decisione in commento ha, pertanto, ad oggetto la disciplina del raddoppio dei termini previsto dall’articolo 43, comma 3, del Dpr n. 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr n. 633/1972, nei testi applicabili ratione temporis.

Preliminarmente, viene precisato che l’introduzione del raddoppio dei termini, operata dal Dl n. 223/2006, è senza dubbio applicabile al caso in esame, avente ad oggetto adempimenti fiscali per gli anni di imposta dal 2004 al 2009, estesi poi anche all’anno 2003.

Si ribadisce, in tal senso, che il raddoppio dei termini rileva anche per le annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento (4 luglio 2006) di entrata in vigore del decreto. Tale effetto non deriva dalla natura retroattiva della norma, ma dalla protrazione ex nunc dei termini, non ancora scaduti, di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, in linea con il principio di cui all’articolo 11, primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile.

Quanto alla ripresa a tassazione attinente alla maggiore Irpef, per disconoscimento di costi portati in deduzione dalla società in nome collettivo, la Corte di cassazione chiarisce che non si configura il vizio di violazione di legge in ordine al raddoppio dei termini per l’adozione dell’atto impositivo per l’assenza, in concreto, di una denuncia/querela o comunque di un atto di impulso per l’esercizio dell’azione penale.

Affinché operi il “raddoppio dei termini” è consolidato l’orientamento per cui non è necessario (né richiesto dalla norma) il preventivo esercizio dell’azione penale, bastando l’astratta ipotesi di un fatto costituente reato.

Più chiaramente, in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dall’articolo 43, comma 3, del Dpr n. 600/1973 e dall’articolo 57, comma 3, del Dpr n. 633/1972, nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’articolo 331 cpp, per uno dei reati previsti dal Dlgs n. 74/2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247/2011.

Il raddoppio dei termini, in sintesi, si correla automaticamente alla speciale condizione obiettiva della ricorrenza di fatti implicanti, in presenza di seri indizi, l’obbligo di denuncia penale per i reati di cui al Dlgs 74/2000.

A fortiori, il raddoppio dei termini è indipendente anche dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo, restando in particolare irrilevante l’esito del processo penale (con decisione di proscioglimento per intervenuta prescrizione, di assoluzione o di condanna), in ragione dell’autonomia del processo penale rispetto al processo tributario.

Ribadito quanto sopra (già accolto con orientamento monolitico dalla giurisprudenza di legittimità),

la Corte di cassazione precisa che in tema di accertamento tributario, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari di una società in accomandita semplice determina il raddoppio dei termini per l’accertamento, previsto dall’articolo 43, comma 3, del Dpr n. 600/1973, vigente ratione temporis, anche del reddito imputato “per trasparenza” ai soci accomandanti, come già affermato con sentenza n. 15999 del 2024.

In tal senso, richiamato il principio dell’unitarietà dell’accertamento e l’articolo 5 del Tuir, la Suprema corte afferma che il mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari determini il raddoppio dei termini per l’accertamento anche del reddito imputato per trasparenza al socio.

L’addebito fiscale al socio discende ope legis dall’accertamento effettuato nei confronti della società in cui alcuni soci rivestono la posizione di amministratori e altri sono dotati di amplissimi poteri di controllo, così da escludere un rapporto di alterità dei membri della compagine sociale rispetto alla società in nome collettivo. La commistione soggettiva è evidente quando sia ipotizzata la contestazione di un fatto di reato agli amministratori sociali, con comportamento tenuto per il raggiungimento di un vantaggio (illecito) comune, costituito dal maggior reddito sociale imputato per trasparenza ai soci.

Nello stesso senso, del resto, è stata anche affermata l’applicabilità del raddoppio dei termini ai soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa (Cassazione n. 20043/2015).

In conclusione, la Corte di cassazione afferma che “va ribadito il principio di diritto per cui l’obbligo di denuncia penale fa scattare il raddoppio dei termini per l’emissione degli atti impositivi nei confronti dei soci di società di persone sulle imposte dovute “per trasparenza”, anche se la ripresa a tassazione nei confronti della società si sia risolta in annullamento”.

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