“Se chiudo gli occhi, a volte, mi sembra di sentire ancora il puzzo di quell’erba bruciata, misto all’odore del carburante, che usavamo quando era umida, e a quello dei pesticidi usati per la coltivazione della cannabis.”
Pescara – Lui è Carlos, uno dei miei Falchi di Calabria, quello che ha dato il titolo al mio primo libro. In questi giorni la notizia della sua vicenda giudiziaria ha occupato le colonne di molti quotidiani nazionali. Dopo tredici anni lo Stato si è visto condannare a risarcirlo, ora che Carlos è un civile, per le tristi conseguenze cliniche dovute al suo lavoro: bruciare le piantagioni di cannabis in Calabria, appunto, senza le dovute misure di integrità psico-fisica, di sicurezza e prevenzione, per chi viene a contatto con elementi chimici nocivi e che hanno portato al “congedo per inidoneità permanente dipendente da causa di servizio” per Carlos. Una vicenda che si è trascinata nel tempo ma che, grazie all’impegno degli avvocati Gaetano Mimola e Federico Frasti, ha visto la condanna del Ministero della Difesa, imputabile quale datore di lavoro perché ” pur essendovi onerato, non ha provato di aver predisposto le necessarie misure di prevenzione a tutela del ricorrente”
Ma è una vittoria amara per chi, come Carlos, quella divisa da Carabiniere ce l’ha cucita addosso con la consapevolezza di non poterla mai più indossare.
Lo raggiungo al telefono per farmi raccontare nei particolari una vicenda che conoscevo ma che, per discrezione, non avevamo mai approfondito del tutto, lasciando che fossero solo i suoi ricordi più belli a descrivere gli anni di permanenza allo Squadrone.
Quando, come hai capito che qualcosa non andava?
Nel 2005, ero in palestra e mi accorsi di un piccolo rigonfiamento all’inguine; credevo fosse un’ernia e quindi feci un’ecografia di controllo e mi confermarono che era un nodulo da monitorare. Dopo circa quattro mesi mi sottoposi ad ulteriori accertamenti perché il nodulo era cresciuto di dimensione e in ospedale decisero di asportarlo. La biopsia confermò quanto temevo: era un linfoma non hodgkin.
Quanti anni avevi e cosa facevi precisamente in Calabria?
Avevo 30 anni, ero effettivo allo Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori Calabria e, in quegli anni, bruciavamo piantagioni come non ci fosse un domani. Presi anche un apprezzamento dal Generale Comandante di Regione dell’epoca per l’immenso lavoro svolto insieme alla mia squadra. Poi fui trasferito in armeria, anche qui a contatto con armi e solventi chimici.
Come è cambiata la tua vita da quel giorno?
Dopo il responso di linfoma non hodgkin a grandi cellule B, la mia vita è cambiata in modo radicale. Andai a Pescara per le cure: quattro cicli di chemio (due giorni ogni ventuno), diciotto cicli di radioterapia e controlli continui. Poi ci fu il cambiamento fisico, quello che più ti sbatte in faccia la realtà della malattia. Non potevo uscire, fare attività fisica, ero ingrassato ed il mio corpo era per me quello di un estraneo con i capelli che cadevano a ciocche. Alla fine presi il rasoio e li rasai del tutto.
Come stai oggi?
Adesso sto bene ma la paura di una ricaduta ti resta dentro e la provi ad ogni piccolo malessere, perché alla fine ne esci ma le cicatrici le hai addosso per sempre. Dopo vari ricorsi mi venne riconosciuta la dipendenza da causa di servizio, che fino ad allora veniva data solo ai militari impegnati in missione estere, che mi avrebbe dato diritto ad alcuni benefici, quali la privilegiata diretta in cumulo con lo stipendio che l’Inps, e prima l’INPDAP, elargivano ma, essendo stato riformato nel 2007, la mia istanza deve passare per PREVIMIL, la previdenza militare, dove la pratica si è arenata per via di alcune deleghe a rappresentare il Ministero in sede giudiziale. Poi, pur avendo una terza categoria riconosciuta per malattia oncologica ed un danno biologico appena riconosciuto, malgrado i miei ricorsi anche all’allora Presidente della Repubblica, per lo Stato non sono una vittima del dovere né del servizio, in quanto bruciare piantagioni è ritenuto un normale compito d’istituto.
Cosa vorresti dire ai tuoi “colleghi” Carabinieri?
Vorrei dire semplicemente poche parole a chi ha la fortuna di indossare quella divisa che per me era la vita: io questo privilegio non lo ho più perché la divisa me l’hanno tolta e, se potessi tornare indietro, farei del tutto per non farmi riformare. Me le ricorderò per sempre le mie lacrime quando mi dissero che “non c’erano più i parametri per svolgere l’ attività di Carabiniere” e fui costretto ad accettare il transito nei ruoli civili dell’ Esercito. Mi resta solo il Basco Rosso… Allora voglio dire a voi che avete la possibilità di indossarla ancora: dovete onorare quella divisa ogni giorno!
Dover interrompere la carriera militare è una frustrazione delle aspirazioni personali, così come scritto nella sentenza n.563/2019 emessa il 21.11.2019 dal Tribunale Amministrativo dell’Abruzzo, un danno che non può considerarsi trascurabile e non può ritenersi un mero fastidio non risarcibile!
Alessandra D’Andrea
Riproduzione riservata