Salve Lello, io partirei da una domanda semplice. Com’è stato far parte di The Passion?
“Sono contento di averne parte, perché è stato un grande film. Io, tra parentesi, ho anche interpretato un bellissimo ruolo perché sono stato uno degli esecutori di Gesù. Il mio personaggio era Il soldato romano brutale, quello a cui Mel ha consegnato le chiavi della cattiveria. La Passione di Cristo, tra l’altro, fu parecchio discusso”.
Vuole ricordarci come mai?
“In merito a questo film, ci fu una profonda discussione tra la chiesa ebraica e la chiesa cattolica. La prima, spinta sostanzialmente dalla chiesa ebraica americana, aveva paura che il film potesse essere antisemita. Quell’antisemitismo che nasce dalla crocifissione di Cristo, perché sono i giudei che vengono considerati gli assassini del Cristo, del figlio di Dio. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, tramite Giovanni XXIII, portò però ad un trattato di pace tra la chiesa cattolica e la chiesa ebraica. Tornando a noi, il film all’inizio fu molto contrastato: fu rubata la sceneggiatura, uscirono articoli sui giornali che parlavano di un film che riportava in ballo l’antisemitismo, che era contro il popolo ebraico e così via. Ciò però non era nelle intenzioni di Mel Gibson, visto che il film non aveva la struttura per mettersi contro i Giudei e la chiesa ebraica, piuttosto poneva l’accento sull’essere cruento dell’esercito romano di quell’epoca”.
Parliamo del suo personaggio: Il Soldato Romano Brutale.
“Mel diciamo che mi ha affidato un ruolo fondamentale, che era quello del soldato brutale che comandava l’esecuzione, l’uomo a capo del drappello di soldati chiamati a far crocifiggere Gesù. Io arrivo a metà del film e comincio a dar vita al mio personaggio dalla flagellazione, fino alla morte del Messia.
Nel corso della narrazione, metto a Gesù la corona di spine, gli spezzo il braccio, gli inchiodo la mano sulla croce. Ovviamente non compaio nel momento della resurrezione, quando Gesù si solleva dal sepolcro negli ultimi minuti dell’opera. Sono stato il personaggio un po’ più efferato del film, che non ha nemmeno un nome e viene identificato come il Soldato Brutale; un uomo che non viene citato nei vangeli, a differenza di Cassio e di Longino, che è quello che gli trafigge il costato con la lancia, per liberarlo e non farlo più soffrire. Fondamentalmente perché stava soffrendo maledettamente su quella croce. Per porre fine alla sofferenza, il soldato decide di trafiggerlo e fa sì che Cristo venga inondato dai liquidi interni, frutto della flagellazione, delle percosse, risultato di un corpo completamente tumefatto. Così si evince dagli scritti”.
Come si è trovato con Mel Gibson sul set?
“Il mio rapporto con Mel è stato professionale e di grandissimo livello, oltre che di simpatia e di amicizia personale sul set. Non siamo rimasti amici nella vita, ma questo non importa. Lo siamo comunque. Anche se non ci sentiamo e non ci vediamo, un rapporto quando si è creato non è che lo si può cancellare. Nel caso dovessi incontrarlo per strada, sono certo che lui allargherebbe le braccia per stringermi, per salutarmi. Sono convinto di questo, perché sono stati cinque mesi intensi di chiacchierate, di complicità, di gioco. Avevo con lui un ottimo rapporto, che ho sfruttato anche per chiedergli la cortesia di dirigermi personalmente. Gibson doveva gestire tanti attori, oltre 500 comparse. Ricordo che a Matera, quando andavamo sul set alle 5 e mezza del mattino, si vedeva tutto il paese che camminava per strada con gli abiti del periodo di Gesù di Nazareth. Sembrava di essere proiettati completamente all’interno di quell’epoca”.
Il film era recitato in lingua aramaica e latina. Ha avuto problemi con questo aspetto?
“Le battute del mio personaggio erano tante e, ovviamente, ho dovuto impararle in aramaico e in latino. Tutto quello che ho appreso, in tempi devo dire abbastanza brevi, l’ho fatto con una coach. Ho dovuto anche sperimentare il sistema di indossare delle cuffie per ascoltare una registrazione. Anche durante la notte, quando mi addormentavo, avevo nelle orecchie il parlato, le battute che dovevo dire. In una settimana, massimo dieci giorni, sono così riuscito a imparare le battute e a recitarle.
L’aramaico è una lingua difficilissima, viene considerata parente al greco antico, ma è arabo tutto sommato. Gli arabi che c’erano nel cast, infatti, lo leggevano e pronunciavano perfettamente. Io sono stato aiutato da una particolarità: essendo un soldato romano, il mio linguaggio aramaico non poteva essere preciso. Per fortuna, con la coach abbiamo lavorato su certi suoni e un docente/sacerdote di lingue morte antiche – che sosteneva la produzione ed era amico di Gibson – mi ha confortato perché, quando ho fatto le prime letture, mi ha detto che il lavoro era splendido, che stavo lavorando perfettamente, che lui era contentissimo di quello che avevo fatto”.
E’ contento di questa esperienza?
“Certamente. Le confesso che sono stato reclutato alla fine. Il soldato brutale era un personaggio rimasto scoperto e sono stato suggerito alla produzione; Mel mi ha quindi incontrato e scelto. Il film per me è stato professionalmente importante perché non mi sono mai perso niente, sono stato sempre presente sul set anche nelle frattaglie. Solitamente, quando si fanno dei piccoli riallacci e l’attore non è inquadrato, chiaramente, il regista gli chiede di andare a riposare, perché poi dopo ce l’ha bello fresco per poter girare le scene successive. Io invece non mollavo mai la presa. Rifiutavo categoricamente di andare in camerino perché mi incuriosiva tutto quello che si faceva; tra l’altro avevo la sensazione che un’opportunità del genere, come professionista, l’avrei dovuta sfruttare fino in fondo; non sapevo se me ne sarebbe capitata un’altra dello stesso livello. Come una spugna stavo lì ad apprendere tutto. Per cinque mesi mi sono goduto il film, oltre a farlo, da un punto di vista professionale e attoriale. E’ stata un’ottima esperienza. Quanti attori pagherebbero per seguire, come se fosse un corso, una lezione di cinema, su come si gira e recita un film?”.
C’è un’immagine di The Passion che le è rimasta particolarmente impressa?
“Ritengo che una delle immagini più belle del film, sul finale, sia quella di Dio che lascia cadere una lacrima per la morte del figlio, quel momento in cui si vede dall’alto questa goccia che si stacca da un occhio.
Questa goccia che cade dell’alto del cielo e dà praticamente vita ad un terremoto. Quello famoso che ha causato la caduta del palazzo di Erode, del sinedrio. Quell’immagine è un pensiero poetico di Gibson, che ha poi inserito nel film. E’ una cosa molto molto bella che chiude poeticamente le riprese del film, tutto sommato. Poi il giorno dopo c’è la resurrezione, il sepolcro che si apre da solo, Gesù che si alza con le mani perforate. La Passione di Cristo è la visione di un regista e di un attore d’azione. Non a tutti il film è piaciuto, non tutti l’hanno condiviso. Ci sono state polemiche da parte di chi lo riteneva troppo crudo, anche se papa Woytila, che ormai è santo, e il monsignor Martini, all’epoca, hanno dichiarato che la passione era davvero andata così. Ricordo che anche Zeffirelli fu critico nei confronti di Gibson perché aveva una visione più mistica della passioni, fatta di veli, di luci, di sentimento. Meno umana rispetto a quella di Mel”.
Gibson ha avuto però il merito di andare avanti per la sua strada, nonostante le critiche.
“Esatto. Non è stato tanto a curarsi dei giudizi. E’ andato dritto per la sua strada, tant’è che dopo ha fatto Apocalypto, altro film dove ha ricostruito la lingua Maya, che non sappiamo come fosse. Ha cercato di tirare fuori un ipotesi, così come ha fatto con l’aramaico. Se ci pensa, La Passione è una cronaca di una morte annunciata, per citare Gabriel Garcia Marquez, dove tutti conoscono già le parole perché vengono citate nelle preghiere, quotidianamente e anche più volte al giorno. Certe espressioni sono diventate di uso comune. Questo poteva portare ad un allontanamento dal film, a non avere successo. L’idea di far recitare gli attori in lingua aramaica o latina, con i sottotitoli, è una bravata di Gibson, un intuito, una furbata, perché ti proietta in quella che è la storia in quel momento. Lo spettatore conosce già il valore di quelle parole ma la lingua lo proietta in quel determinato contesto. Rende la storia raccontata più reale, più vicina alla realtà. Poi ci entri dentro e la vivi. Ricordo persone che si sono alzate commosse alla fine della proiezione, compreso me che l’avevo girato. Per tutta una serie di emozioni personali”.