Conosco molto bene quella geografia di terra e di mare. Conosco l’idea anche di una letteratura costruita intorno ai viaggiatori che vi hanno sostato o che l’hanno abitata. Napoli la vive e la custodisce nel suo antico viaggio greco tirrenico. Si meritava di diventare della Cultura per il 2022 Capitale. Perché? Perché il discorso di merito su simili scelte scava su una cultura materiale e una visione immateriale.
Ovvero. Una antropologia non solo del luogo fisico, ma soprattutto dei luoghi, in cui il tempo della memoria è invisibile e sublime come le acque del Tirreno che raccontano la favola delle maghe. Intorno al Progetto Cultura si è lavorato con la forza della fantasia in un gioco immaginario che non ricostruire soltanto la storia, bensì la capacità di andare oltre. Come va oltre la letteratura. I beni culturali sono storia e memoria esistenti. Mai confusione o contraddizione. La letteratura è immaginario da vivere che permette però di trasformare la memoria in contemplante pensiero. Elsa Morante scrisse delle pagine splendide nel suo “L’isola di Arturo” del 1957. Una dolcezza fatta di infanzia e di infiniti.
Si legge: “E se per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per le strade, e canti, e suoni di chitarre e mandolino, per cui la regione di Napoli è conosciuta su tutta la terra. I Procidani sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano alle finestre, ogni famiglia vive fra le due quattro mura, senza mescolarsi alle altre famiglie. L’amicizia, da noi, non piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza. Se esso fa delle domande, gli rispondono di malavoglia; perché la gente, nella mia isola, non ama d’essere spiata nella propria segretezza“. Memorabile pagina di uno scrigno segreto e rivelante. Come nelle pagine di Alphonse de Lamartine nel suo “Graziella“.
Un romanzo, quest’ultimo, di viaggio, dove Procida è il diario di un viandante che annota sensazioni nelle emozioni. Ricordo questa sottolineatura: “Un giorno dell’anno 1830, entrando di sera in una chiesa di Parigi, vidi la bara d’una giovinetta, coperta da una coltre bianca. Questa bara mi ricordò Graziella. Mi nascosi all’ombra di un pilastro e pensai a Procida, piangendo a lungo. Le mie lagrime si asciugarono, ma le nubi che avevano attraversato il mio pensiero durante la tristezza del funerale non dileguarono. Rientrai silenzioso nella mia camera, svolsi i ricordi che sono tracciati in questo libro e scrissi tutto d’un fiato, piangendo, i versi intitolati: Primo rimpianto. È la nota, resa fievole da vent’anni di distanza, d’un sentimento che fece zampillare la prima sorgente del mio cuore. Ma vi si sente ancora la lacerazione d’una fibra intima che non guarirà mai. Ecco queste strofe, balsamo d’una ferita, sboccio di un cuore, profumo di un fiore sepolcrale: Non vi manca che il nome di Graziella. Ve lo incastonerei in una strofa, se vi fosse quaggiù un cristallo abbastanza puro per rinchiudere questa lagrima, questo ricordo, questo nome!”.
Incastonato in una strofa! Straordinario immagine in un immaginario, dunque, metaforicamente reale ed evanescente. Arturo e Graziella. Due personaggi. Due scrittori. Il secondo testo viene pubblicato in Italia nel 1856. Due romanzi per due sceneggiature cinematografiche. Un viaggiare tra gli intagli dell’anima e dei racconti del luogo, dell’isola. Isola, luogo dell’anima nel tempo.
Altri hanno scritto su Procida. Altri hanno descritto. Altri hanno raccontato. Procida è un Tempio. Il Tempio, sacro e metamorfosi. Una Capitale nella cultura. Ma già Arturo e Graziella sono anima di una progettualità. Il resto è narrazione della dissolvenza. Il pensiero corre lungo le linee dell’Isola e la memoria è lunga da decifrare. Basta un frammento. Di verità che sia verità. Di mistero che sia mistero. Procida è nel cuore. Ma anche oltre. Quest’isola che ha la maga nel cerchio delle fate. Non fatale. Magica, sì.