Egualmente, procede senza sosta l’incremento delle donne iscritte all’Albo professionale degli ingegneri: nel 2007 erano poco meno del 10%, mentre nel 2021 sono il 16% degli iscritti (quasi 40.000 donne iscritte all’albo).
Per molti versi l’Italia primeggia in Europa in termini di orientamento delle donne allo studio dell’ingegneria. Il Centro Studi CNI rileva che le ultime statistiche Eurostat evidenziano per l’Italia una percentuale di laureate nella categoria “Engineering, manufacturing and construction” (una categoria più ampia dei nostri corsi di laurea in ingegneria e che ricomprende anche Architettura) più elevata di molti Paesi con cui siamo soliti confrontarci. Nel 2018 al 13,2% delle laureate in Italia sul totale dei laureati nella categoria “Engineering, manufacturing and construction”, corrispondeva l’11,6%% della Francia, il 10,1% della Danimarca, il 9,2% della Germania e il 6% del Regno Unito.
“Le donne nell’ingegneria sono la nostra punta di diamante – afferma Armando Zambrano, Presidente CNI –. Con orgoglio assistiamo ad un incremento costante della loro presenza nel nostro settore. Molte donne ingegnere italiane sono un’eccellenza nel campo della meccanica, dell’aerospazio, dell’intelligenza artificiale, della bioingegneria e di molti altri ambiti e sono richieste dalle più prestigiose università, aziende e agenzie internazionali. Questo aspetto si scontra con l’avvilimento del principio delle pari opportunità di cui è prigioniero il nostro Paese, che ha fatto veramente pochi passi in avanti nella costruzione di un sistema di welfare dedicato alle donne ed alla conciliazione dei tempi lavoro-famiglia. Ed il problema appare drammatico ed ingiusto soprattutto tra chi esercita la libera professione. Molte sono state lo scorso anno, nella fase più acuta della crisi, le lettere inviate al CNI da iscritte impossibilitate, pur volendolo, a portare avanti il proprio lavoro per dover accudire i figli. Ma per molte donne questa è la regola, non è l’eccezione dovuta al Covid, perché su di esse ricade il peso delle cure parentali, non potendo contare su nessun vero strumento di welfare che possa definirsi tale e che possa essere paragonato a ciò che accade in gran parte dei Paesi europei vicini a noi. Il CNI dedica l’8 marzo a tutte le donne che, come molte nostre iscritte, si trovano in difficoltà e si batterà più di prima perché le lavoratrici autonome possano godere di un sistema di sostegno più equo e efficace.”
“L’Italia ha ancora molti ritardi da recuperare, ma le donne nelle discipline STEM e nell’Ingegneria in particolare, stanno facendo grandi passi in avanti – afferma Ania Lopez, Consigliera del CNI -. Chiedo di non parlare più dei ritardi nell’accesso delle donne nei settori STEM, questione certamente importante, ma su cui è già in atto un positivo cambiamento. Chiedo, invece, di concentrarci sul vero problema di questo Paese in termini di questione di genere, ovvero sui gravi divari salariali tra uomo e donna che, in comparti avanzati come quelli dell’ingegneria, nel 2021 non dovrebbero neanche esistere. Ma il gender-pay-gap è solo l’elemento rivelatore di un problema più grave, che è la carenza di strumenti a sostegno del lavoro femminile professionale, strumenti che agiscano non una tantum e in fasi di emergenza, come lo scorso anno con il contentino del bonus baby sitter, ma che accompagnino ciascuna lavoratrice nel ciclo di vita dell’accudimento della propria famiglia.”
In accordo con quanto affermato da Zambrano e dalla Lopez, i dati del Centro Studi CNI attestano che anche in termini di laureate nelle discipline STEM la distanza dell’Italia rispetto ai principali Paesi europei si sta non solo colmando progressivamente, ma è minore se messa a confronto con ciò che si rileva tra gli uomini. Nel 2018 l’Eurostat riporta per l’Italia 12,5 donne laureate in discipline STEM per 1000 abitanti, a fronte delle 11,8 della Germania, delle 8 dell’Olanda, delle 12,4 dell’Austria, delle 16,4 della Francia. Ma se si guarda agli uomini l’Italia registra 18 laureati in discipline STEM per 1000 abitanti, contro i 27,8 laureati per 1000 abitanti in Germania e i 36,5 in Francia.
Il vero problema oggi, dunque, non è tanto quello dell’accesso delle donne agli studi ed alle professioni tecnico-scientifici, ma il divario salariale che riguarda sia il lavoro dipendente che quello autonomo, ma che in quest’ultimo assume un aspetto ancora più accentuato.
Per avere un’idea del problema è sufficiente analizzare i dati sui redditi medi dei liberi professionisti che operano nel settore dell’Ingegneria. Nel 2018 a fronte di un reddito medio annuo, secondo Inarcassa, di 34.547 euro, quello degli uomini si è attestato a 37.019 euro e quello delle donne a 20.696, il 56% di ciò che guadagna un uomo. Nel caso degli architetti liberi professionisti la situazione è peggiore, con un reddito medio annuo delle donne pari al 64% di quello degli uomini.
Dietro un fenomeno così macroscopico come quello del gender-pay-gap si nasconde un sistema di welfare a sostegno delle lavoratrici inadeguato in Italia, ma che per le donne nel lavoro autonomi si rivela inesistente o gravemente insufficiente. Pur nelle forti trasformazioni sociali intervenute negli ultimi decenni, resta il fatto che l’onere delle cure parentali e di accudimento della famiglia ricadono quasi esclusivamente sulle donne e quando una di esse intende esercitare la libera professione la conciliazione dei tempi tra lavoro e famiglia può rivelarsi in alcuni casi impossibile.
Ripartire dalla definizione di un quadro organico, realistico ed efficace delle misure di welfare e a sostegno delle lavoratrici appare oggi improcrastinabile. Servono misure capillari e massicce a sostegno delle lavoratrici, con particolare riguardo per quelle che operano nel lavoro autonomo. Serve peraltro in questo percorso un’azione efficace delle Casse previdenziali private, che nella fase acuta della crisi determinata dai lockdown per epidemia da Covid-19 hanno messo in campo certamente alcune risorse, che però si sono rivelate nient’altro che un palliativo.