Roma – In primis, sfogliando la silloge poetica di Roberto Maggi, colpisce la foto all’inizio del volume: foto di un interno, con ombre e luci, chiaroscuri e colori sfumati che catturano subito l’occhio. “Scene da un interno” è poesia che stravolge, fin dal principio, e che insieme coinvolge, che spinge alla riflessione e che lascia perplessi e un poco attoniti per la lingua e lo stile, le argute metafore, l’osservazione minuziosa delle cose tutte, lo scavo profondo e doloroso in esse, il far conoscere cosa si cela inconsciamente oltre il sipario.
La silloge è composta da quattro sezioni – Metropolis a fuoco, visioni a 180°, Bestiario digitale, Istantanee di niente – tutte decisamente forti e taglienti come una lama che penetra nella carne e lacera. Il poeta coglie la realtà attuale di un mondo avulso, frammentato, spesso allucinato e allucinante, i suoi mali e le sue perversioni, la sua consistenza distorta e la sua frequenza distopica e li canta per l’uomo che sa e vuole ancora ascoltare perché, non mi stanco mai di ripetere, la funzione della poesia (o almeno la sua principale funzione) è trarre canto anche dal sangue e dal letame, dando un senso compiuto all’Essere transeunte.
Dalla prima sezione – Metropolis a fuoco – ecco la poesia, che apre l’intera silloge, dal titolo Sulla strada: “Non puoi saperlo meglio/di quel barbone dalle dita vizze/dei suoi stracci corrosi/su strade nauseabonde:/le monete della gioia/balenanti su cornee/divorate di delirio/non si elemosinano”. La lingua si anima e prende vita, diventa voce di denuncia e ammonimento quasi per l’indifferenza dominante. Dalla seconda sezione – Visioni a 180° – la poesia Siamo da soli: “Siamo da soli a fantasticare/quando il giocattolo tra le mani/è relitto invisibile di pezzi./Siamo da soli a inscenare/conturbanti feste di Menadi/che neppur sanno di esistere”.
La parola qui è come una visione incisiva della deriva di una società opulenta priva di ogni anelito spirituale. Della terza sezione – Bestiario digitale – la poesia dal titolo Democrazia: “Dal mio nido di conclave/tra tende affaticate/spunta un coacervo dispari/di mansarde, grondaie/tranci di tetti incastonati/in sezioni di vetro/macchiato a spruzzo./Apro, ma non s’arieggia lo stantio/ché s’imbucano sciami posseduti/tappezzando fitti filari/di libri ingialliti,/occupando capillari/incavi sgombri/che solo la mia pretesa ottusa/riteneva sua proprietà esclusiva”. Sembra serpeggiarvi, in modo latente e velato, una certa ironia letteraria e una delusione sottile, ma il tutto è immagine poetica speculare di un concetto – idea politico importante e fondamentale. Dalla quinta sezione – Istantanee di niente – la poesia Porte riaperte: “Riaperte al mondo/porte di tungsteno,/screziate razze vi hanno confluito/diaspore infiorate da ghirlande/di specie ancora increate”. Incisivo ogni verso scritto per stimolare e per far reagire la coscienza intorpidita dell’uomo di fronte a realtà che possono essere abnormi e immani eppure silenziose e silenti.
Molto vi è nella silloge poetica “Scene da un interno” di Roberto Maggi della poetica di Charles Baudelaire. “I fiori del male” dello stesso hanno un ché di accomunante e di similare, un cantare e un porgere all’uomo del proprio tempo ciò da cui egli è sommerso e vive e ciò di cui forse non è consapevole anche suo malgrado. Il poeta e la Poesia sono sempre immersi in ogni attuale momento esistenziale, ma tuttavia vanno e stanno sempre oltre ad esso proiettandosi al di fuori del tempo.
Francesca Rita Rombolà