di Maddalena De Lucia
“La più spettacolosa conflagrazione di questo secolo”. Così fu definita l’eruzione del Vesuvio del 1822, per l’imponente attività esplosiva e le abbondanti colate di fango che devastarono i versanti settentrionale e orientale del vulcano. Ne riportarono una dettagliata descrizione Teodoro Monticelli e Nicola Covelli, autori di ricerche sulla storia, le rocce e i minerali vesuviani, tra i primi a imprimere una svolta in senso sperimentale allo studio delle eruzioni.
Fu proprio l’eruzione del 1822 a dare agli studiosi la possibilità di riconoscere chiaramente i vari tipi di depositi e rocce eruttati, giungendo a distinguere i prodotti piroclastici da flusso e da caduta, e a definirne le caratteristiche.
Gli eventi
Quella del 1822 fu un’eruzione mista effusiva-esplosiva originata dall’area del cratere con una parziale fuoriuscita di lava anche da una fessura sul lato sud occidentale del cono vesuviano. Fu preannunciata la sera del 20 ottobre da emissioni di cenere accompagnate da terremoti. A mezzogiorno del 21 ottobre, con l’attività effusiva, cominciò l’eruzione. La lava andò a riempire l’Atrio del Cavallo, la valle tra il Monte Somma e il Gran Cono vesuviano, dirigendosi poi verso Boscotrecase e Ercolano, senza raggiungere i due abitati, ma distruggendo boschi e vigneti.
Nella notte tra il 21 e il 22 ottobre cominciarono a svilupparsi fontane di lava. La prima, a partire dall’una della notte, fu ben visibile da Napoli e raggiunse un’altezza di circa 600 metri. Intanto a est, dopo un’esplosione che provocò il crollo dell’orlo craterico, si formò una nube rossastra sopra Boscotrecase e Ottaviano da cui ricadde una “pioggia lapidea”. Spaventata, la popolazione fuggì, ma il mattino successivo tornò alle proprie abitazioni per spazzare via la cenere dai tetti per scongiurarne il crollo. Queste operazioni di pulizia dei tetti costituivano azioni di routine e testimoniano il persistere di una cultura popolare di mitigazione dei pericoli, formata dall’esperienza del vivere su un vulcano in attività pressoché continua, quale era il Vesuvio in quel periodo.
All’alba del 22 ottobre la colonna eruttiva appariva ancora debolmente alimentata. Con la ripresa delle emissioni di cenere si sviluppò una immensa e densa nube scura che fu spinta dal vento verso sud-sud est, ricoprendo Boscotrecase, Torre Annunziata, Pompei, fino a Castellammare e Sorrento, dove ricaddero ceneri e sabbie vulcaniche. La lava continuava a scorrere sui fianchi del Gran Cono, fino a giungere al Piano delle Ginestre.
Nel pomeriggio del 22 ottobre una nuova colonna eruttiva a forma di pino e dai colori cangianti si innalzò nell’atmosfera per circa tre chilometri. La ripresa dell’attività esplosiva fu preceduta da tremore del suolo, boati assordanti ed esplosioni (figura 1).
“Tricolore era l’aspetto del pino: il tronco era bigio e tinto leggiermente di rossigno. Quella parte poi de’ vortici e del pino intero che al sole opponevasi, come bianca neve e come gruppi immensi di candidissima bambagia appariva; mentre le parti laterali che al Nord volgevano, tinte di un bel turchino, andavano gradatamente diradandosi ed a confondersi nel bigio del nuvolone rotondo, in cui il pino stesso terminava” (Monticelli e Covelli, 1823).
Dalla nube ricadevano dappertutto ceneri grossolane. Alle quattro del pomeriggio del 22 l’attività effusiva aumentò, l’orlo orientale del cratere collassò ulteriormente facendo traboccare la lava, che si ammassò sul piano della Pedamentina verso Boscotrecase, diramandosi in varie direzioni. Per l’accumulo delle colate laviche la superficie del piano della Pedamentina si sollevò di dodici-tredici metri.
Una forte attività sismica preannunciò la successiva fase parossistica, con fontane di lava che, come “piramidi candenti” illuminarono la sera e la notte del 22. Questa attività terminò intorno alla mezzanotte, ma, dopo circa un’ora, ne cominciò un’altra.
Il 23 ottobre 1822
“La cima accesa del monte, nelle più alte regioni del cielo i suoi getti infiammati sempre più spingeva; l’aria era ingombra di faville di fuoco, e l’orizzonte intero di vivissima luce dappertutto scintillava”.
All’una del mattino si sentì un’esplosione e una lunga detonazione, accompagnata da forte tremore del suolo. Mentre aumentavano le scosse sismiche e le esplosioni si sviluppò quindi una enorme nube eruttiva che fu spinta verso sud est. La nube oscurò il cielo per molte ore e solo a mezzogiorno del 23 cominciò a dileguarsi (figura 2).
Boscotrecase e Torre Annunziata subirono molti danni per la caduta dei frammenti piroclastici, il cui peso fece crollare la chiesa di S. Anna a Boscotrecase. Qui lo spessore dei depositi piroclastici raggiunse circa i 30 centimetri. Anche stavolta gli abitanti si affrettarono a sgomberare tetti e terrazze dalla cenere e dai lapilli. Sul cratere, lo spessore dei depositi piroclastici da caduta variava da 81 a 162 centimetri, secondo le misure effettuate da Monticelli e Covelli.
Alle due del pomeriggio del 23 ricominciarono il tremore e le esplosioni, preannunciando l’arrivo di un nuovo parossismo. Si formò nuovamente una colonna eruttiva a forma di pino, ma più piccola di quella del giorno precedente. La nube sembrava essere costituita da due parti: a ovest era bianca e senza vortici; a est, grigio scuro e con vortici nella parte alta. La pioggia di cenere e lapilli riprese e continuò fino a mezzanotte, poi cominciò a cadere cenere rossastra finissima, che si depositò fino a più di cento chilometri dal cratere, avvolgendo Napoli e i paesi del versante settentrionale del vulcano.
I giorni successivi e la fine dell’eruzione
La mattina del 25 ottobre si elevò nell’atmosfera una nuova colonna eruttiva a forma di pino, che venne spinta verso nord. Quel giorno cominciarono le piogge che proseguirono nei giorni successivi. Le ultime fasi dell’eruzione furono caratterizzate da colate di fango (lahar) che continuarono a scorrere per molti giorni dopo l’eruzione. I lahar provocarono gravi danni sui versanti settentrionali e orientali del vulcano, diventando più impetuosi perché il terreno era quasi impermeabile a causa delle ceneri fini che impedivano l’assorbimento dell’acqua piovana. Per mitigare il fenomeno delle alluvioni gli abitanti si precipitarono a zappare i campi subito dopo la deposizione delle ceneri, per impedirne l’indurimento.
“Il suolo era coperto da una specie d’intonaco che la sabbia finissima stemperata dalla pioggia vi aveva formato. [Gli abitanti] Si affrettarono quindi a rompere su le falde del monte la crosta indurita; e tali operazioni furono altresì dal Governo ordinate a tutti i paesi di sopra accennati (…). Le comunità di Ottajano, di Bosco e di Resina [Ercolano], più sollecite delle altre furon salve dalle inondazioni successive, che grandi guasti portarono in quelle che tale spediente trascurarono o differirono” (M&C, 1823)
L’eruzione terminò il 2 novembre con l’emissione di ceneri biancastre. Si è stimato che i prodotti piroclastici ricaduti entro un raggio di 9 chilometri dal cratere avessero un volume di circa 0.05 chilometri cubi, quello delle lave eruttate poco maggiore (0.066 chilometri cubi). Con l’eruzione il vulcano si abbassò di 93 metri sul lato sudoccidentale e si formò un grande cratere, profondo 216 metri e largo circa mezzo miglio (figura 3) (M&C, 1823). Dopo l’eruzione il vulcano rimase inattivo per qualche anno.
L’eruzione del 1822 nella tradizione popolare.
Tra i luoghi maggiormente colpiti vi fu Torre Annunziata, nei primi giorni dell’eruzione interessata dalla fitta pioggia di ceneri e lapilli che ne oscurarono il cielo quasi costantemente. Gli abitanti chiesero aiuto e sostegno alla loro patrona, la Madonna della Neve, portando in processione la sacra icona per le strade della cittadina.
Mentre la folla era riunita in strada, in preda a sentimenti di paura e sconforto, un raggio di sole riuscì a oltrepassare la cappa di cenere, andando a posarsi sul viso della Madonna. Questo “miracolo” segnò la fine delle fasi più esplosive e la salvezza della città. Da quell’anno, ogni 22 ottobre viene festeggiato solennemente con la tradizionale processione della Madonna della Neve, molto sentita e partecipata dalla cittadinanza torrese (figura 4).
Verso una moderna interpretazione dei fenomeni vulcanici: Teodoro Monticelli e Nicola Covelli
“Consultavamo intanto agli antichi e moderni scrittori de’ nostri Vulcani, e le opere degli stranieri sullo stesso argomento, non che i più celebri autori di Geologia e di Orittognosia; ma avendo trovato i Geologi divisi in due partiti, l’uno de’ quali alle solo acque e l’altro al solo fuoco attribuisce la maggior parte di ciò che su la superficie del globo e nel suo seno si contiene, cercammo di studiare semplicemente i loro sistemi, senza sposarne alcuno, proponendoci solo d’essere fedeli relatori dei fatti che si presentavano alla nostra osservazione” (M&C, 1823)
Teodoro Monticelli, abate benedettino e patriota giacobino, famoso geologo, fu una figura di grande rilievo non solo per la vulcanologia, ma anche per la vita culturale del Regno delle Due Sicilie nella prima metà dell’Ottocento. Di origini brindisine e trasferito poi definitivamente a Napoli, rivestì l’incarico di Segretario perpetuo della Reale accademia delle scienze, fu nominato Cavaliere ed ebbe frequenti scambi con intellettuali e scienziati di tutta Europa, diventando punto di riferimento a Napoli della comunità scientifica internazionale. Con Nicola Covelli, chimico e allievo solerte, si dedicò allo studio dei vulcani.
Monticelli fu uno dei padri della vulcanologia moderna. Abbandonò i paradigmi teorici delle discussioni tra nettunisti e plutonisti ed evidenziò il valore dell’osservazione dei fenomeni e dei dati sperimentali. Insieme a Covelli, intuì l’importanza dello studio dei prodotti vulcanici (determinandone la composizione chimica, la densità, la mineralogia), della distribuzione e dello spessore dei depositi piroclastici (ceneri, lapilli, pomici), della forma e dell’origine dei vulcani, delle fumarole e delle acque termali.
Una curiosità: si ipotizza che il termine “parossismo” per indicare un’eruzione vulcanica esplosiva di alta energia sia stato usato per la prima volta proprio nel lavoro scritto per l’eruzione del 1822 da Monticelli e Covelli (figura 5).
“Non vi è stata eruzione da noi osservata la quale non abbia presentato intervalli di pause ed eccessi di vigore nelle sue ejezioni. Questo fatto non ci sfuggì nell’eruzioni del 1812, 1813 e 1817; ma non credemmo allora doverlo sistematicamente pubblicare, temendo che fosse puramente accidentale. Il ritorno costante però di tali accessi in quattro consecutive eruzioni ci spinge a tenerne conto; ed il periodo ch’essi serbano, avendo qualche cosa di comune con quelli che i medici chiamano parosismi nelle malattie umane, ci ha indotti a dar loro lo stesso nome. I quali parosismi osservati in tutti loro andamenti, sembrano andar soggetti ad una legge; vale a dire che la loro violenza segue la ragione inversa del tempo della loro durata.” (M&C, 1823)
I due scienziati affiancano all’osservazione e all’attività sul campo una metodologia di ricerca e analisi teorica capace di muoversi tra classificazioni e ipotesi dinamiche sul comportamento e l’attività dei vulcani. Palazzo Penne, residenza napoletana di Monticelli, era una vera e propria wunderkammer, insieme museo e laboratorio. La struttura che Monticelli immaginava sarebbe stata una istituzione dedicata ad osservare, sperimentare e raccogliere dati sull’attività del Vesuvio, e per la sua realizzazione sollecitò più volte negli anni il Re delle Due Sicilie.
“Se uomini istruiti vegliassero in un osservatorio meteorologico-vulcanico a notare tutte le vicende del Vesuvio, ed osservare gli effetti ch’esse producono nell’atmosfera, nel suolo, nel mare e sull’economia del regno vegetabile ed animale … la fisica vulcanica ne diverrebbe più estesa e men tenebrosa. E se questi stessi scrutatori della natura attendessero’ a raccogliere, più ampiamente di quello ch ‘ abbiam potuto far noi, i numerosi prodotti ed edotti vulcanici di queste nostre regioni, e coll’ ajuto della chimica ne fissassero l’indole e le facoltà, quale immenso vantaggio non ne trarrebbero l’Orittognosia e la Geologia!” (M&C, 1823).
Il progetto trovò finalmente la sua attuazione negli anni 40 dell’Ottocento, grazie a un ministro dell’Interno intelligente e innovatore, Nicola Santangelo. Nacque così, “ab inchoato extructum” , fondato nel 1841 e inaugurato nel 1845, il Reale Osservatorio Meteorologico Vesuviano.