Ho ancora gli occhi da cerbiatto CSA Editrice (2022) è il libro di esordio di Salvatore Claudio D’Ambrosio, un racconto che custodisce le vicende biografiche dell’autore, tutti quei ricordi che ricostruiscono il quadro della sua infanzia e adolescenza fino a arrivare all’età adulta. Quella di Salvatore è la storia di un ragazzino adottato che ha dovuto più volte nella sua vita “ricominciare da zero”, fare i conti con le tante aspettative cucite su di lui ma anche con vicende personali che lo hanno portato molto spesso a sentirsi solo, amareggiato, incompreso.
Con grande coraggio e tenacia Salvatore Claudio non ha mai smesso di credere nei sogni e in questo libro ha saputo dare voce al suo io interiore, per ricostruire la tortuosa strada che lo ha portato a costruire la sua più autentica identità, quella di “un sognatore per vocazione”.
Come si legge e l’autore afferma la sua “non è una storia facile da leggere, piacevole, edulcorata, ma è una storia vera. La mia storia. E se ho deciso di raccontarla è per due motivi: perché le storie vanno raccontate, e perché questa possa dare un barlume di speranza a qualcuno che magari pensa di aver toccato il fondo. È la storia di un sopravvissuto, che però non hai mai smesso di sperare che le cose potessero migliorare”.
Il linguaggio diretto e talvolta ironico di questo libro crea immediatamente un legame sincero quasi affettivo con il lettore e sottolinea con forza come nella vita sia importante percorrere la strada delle proprie idee e aspirazioni senza farsi sopraffare dalle difficoltà e dalle aspettative altrui. Salvatore Claudio D’Ambrosio oggi ha 36 anni e si definisce “marito, papà di tre splendidi bambini, consulente privato presso un importante gruppo bancario nazionale, figlio, adottato, nero (o marrone, a seconda della sensibilità dell’interlocutore). Bancario per professione, sognatore per vocazione”.
Oggi incontriamo l’autore per parlare del suo primo libro Ho ancora gli occhi da cerbiatto, romanzo che ha appassionato moltissimo e ricevuto numerosi apprezzamenti da parte di chi l’ha letto.
Ciao Salvatore Claudio e grazie per essere qui con noi. Come prima cosa mi piacerebbe chiederti, data la particolarità del tema, come è nata l’esigenza di scrivere questo libro?
“Il libro è nato durante l’attesa della diagnosi di sclerosi multipla. Facevo psicoterapia al tempo, e dovetti iniziare un periodo di riposo assoluto. Nei due mesi di chiusura in casa iniziai a scrivere vari pezzi della mia vita, per cercare di darmi coraggio, in vista della diagnosi che si profilava. Con lo scrivere acquisii maggiore coraggio, e riuscii ad affrontare quella notizia (la diagnosi di sclerosi multipla, ndr) con maggiore serenità e maggiore consapevolezza della mia forza”.
Hai delle abitudini quando scrivi?
“Forse l’unica abitudine che ho è di prendere appunti su ogni strumento utilizzabile: fogli di carta, telefono, scontrini, dovunque. Non ho una routine precisa nello scrivere. Metto nero su bianco le emozioni quando vengono e come vengono, proprio per non sottrarre alle stesse la spontaneità. Mi è capitato di prendere appunti in una notte di insonnia alle 3 di notte. Andai in cucina e scrissi su un foglio di scottex. Quando sento di voler imprimere un pensiero uso tutte le forme possibili, anche i messaggi vocali a me stesso (pur non sopportando il riascoltare la mia voce)”.
Chi ha letto per primo il tuo racconto e che impressioni ha avuto?
“Mia moglie è stata la mia alpha reader e la beta reader, oltre a essere colei che ha letto per prima il libro così com’è stato impaginato. Mi ha sempre esortato ad andare avanti, a non fermarmi. Mi ha corretto qualche piccolo refuso e mi ha suggerito anche di provare a raccontare molto di più di quanto fatto nel libro stesso, ma essendo stato un libro nato non per la pubblicazione, non ho mai pensato di utilizzare strumenti propri della narrazione, ad esempio i dialoghi. Ho scritto usando lo strumento in maniera terapeutica”.
È stato difficile rielaborare alcuni tuoi ricordi di infanzia e esternarli al pubblico?
“Come dico sempre, è stato molto più complesso vivere quelle situazioni nel momento stesso nel quale accadevano. Rivivere non è stato facile, ma è risultato complessivamente meno articolato e doloroso di quanto potessi credere. Mi è servito molto però, perché ritornando a determinate situazioni ho potuto conoscere e vedere sentimenti di amore e di coraggio che credevo non mi appartenessero”.
L’importanza di seguire i propri sogni: cosa ci suggerisce il tuo romanzo?
“Il mio piccolo romanzo suggerisce anche la capacità di rimodellare i propri sogni in base alla propria vita e in base ai fatti che ci capitano. A 24 anni sognavo di aprire un mio ristorante all’estero, a 36 sogno di vedere la mia famiglia felice e sogno di girare il mondo. Il libro stesso è la realizzazione di un sogno che avevo sin da ragazzo, da quando avevo un blog su MSN e scrivevo piccole cose che mostravo ad amici e ai conoscenti. Credo sia anche fondamentale capire che i sogni debbano essere adatti a noi, sennò rischiamo di crearci mostri di infelicità da soli: sognare con qualità, e non in quantità. Quando giocavo a basket sognavo di giocare in NBA. Quando capii che non ci sarei riuscito ho iniziato a sognare e a desiderare altro, non rincorrendo cose irrealizzabili”.
Cosa hai voluto trasmettere ai lettori con la tua storia?
“Il non vergognarsi di se stessi. Feci una presentazione lo scorso dicembre, nel liceo dove ho studiato quasi 20 anni, parlando a una platea di 150 ragazzi di varie classi. Dissi loro che li capivo, perché tante sofferenze che loro vivono adesso io le ho vissute, ed ero lì davanti a loro, parlandone senza vergogna e senza paura. Anche l’aver parlato di una molestia subita, argomento tabù per gli uomini, è un invito forte a non vergognarsi del dolore, del parlare di certe sofferenze affrontate”.
“Ho ancora gli occhi da cerbiatto” è un titolo che fra le altre cose rimanda anche al coraggio di rimanere sempre fedeli a se stessi, a quella parte fanciullesca che è presente in ognuno di noi. C’è un messaggio nell tuo libro in tal senso?
“Il non perdere mai lo sguardo di amore che si ha da piccoli, quella meraviglia propria di un’età senza affanni e senza sovrastrutture. Ho vissuto dolori forti, sofferenze grandi, ma non ho mai smesso di perdere la speranza che le cose potessero andare meglio nella mia vita, anzi, ho sempre creduto che valesse la pena vivere anche quel dolore forte, anche quel momento di tristezza, convinto che le cose potessero e dovessero andare meglio”.
Descrivi il tuo romanzo con tre aggettivi
“Autentico, coraggioso e vero”.
Hai ricevuto moltissimi commenti e pareti positivi: te lo aspettavi? Che emozioni hai avuto?
“Ero convinto che questo libro lo leggessero in quattro gatti, invece il libro è andato, sta andando, ben oltre le più rosee aspettative. Mi sento ancora come un impostore, convinto di non meritare certe cose, e di aver tolto spazio a qualcun altro. Rispetto però a qualche mese fa riesco anche a essere felice di tutto ciò che mi sta capitando. Se qualcuno mi dice che ha apprezzato il mio libro dopo i primi 5 minuti di imbarazzo riesco a dire anche un “grazie” senza scoppiare in lacrime”.
Hai altri progetti letterari nel cassetto?
“Sto scrivendo un secondo libro che riprende anche persone trattate nel primo libro, ma dando uno sguardo sull’altra parte della medaglia. Il primo è stato il libro della rabbia, il secondo sarà il libro del ringraziamento, del dire “ti ho odiato, ma ti sono anche grato per l’esser stato funzionale alla mia vita”. Vorrei continuare a scrivere sempre restando me stesso, senza ammiccamenti, senza mosse furbe. Non rinnego ciò che ho detto nel primo, anzi, ma dopo la rabbia credo sempre ci possa e ci debba essere una reazione di amore. Mio padre e mia madre sono stati anaffettivi, complessi nelle relazioni con me, ma sono stati pur sempre gli artefici della mia seconda venuta al mondo, con l’adozione. Non più riconoscenza tossica, ma sguardo lucido anche e soprattutto su tanti piccoli frammenti della mia vita”.