Dolore cronico, le scelte del medico ed i bisogni del paziente

Il dolore cronico è considerato una delle patologie più debilitanti e con maggior impatto sui sistemi sanitari dei Paesi occidentali, nonché sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette. In Europa un’indagine condotta da Brevick nel 2006 ha stimato che il 19 per cento degli adulti sia affetto da dolore cronico, collocando l’Italia tra i primi posti, dove ne soffre il 26 per cento della popolazione. Oltre a essere una delle principali cause di disabilità, il dolore si ripercuote sulla produttività delle persone, influenzando quindi direttamente i sistemi di welfare. In Europa si stima che il costo totale delle sue conseguenze ammonti a circa 300 miliardi di euro.

L’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali (OsMed) descrive le tendenze su scala italiana della prescrizione dei farmaci antidolorifici rimborsate dal Servizio sanitario nazionale. Nell’arco del 2021 ha rilevato un incremento nelle prescrizioni di questi farmaci in termini di variazione del rapporto della defined daily dose (ddd per mille abitanti), che passa dal 6,9 del 2014 al 7,7 del 2021. Il rapporto mette inoltre in evidenza una variabilità geografica: si registrano maggiori prescrizioni al nord (8,9 ddd/1000 abitanti) rispetto al sud (6,0 ddd/1000 abitanti) [3]. Tuttavia questo incremento complessivo nelle prescrizioni degli oppioidi maggiori sembra essere modesto rispetto ad altri Paesi europei, come per esempio la Svizzera.

Ciononostante, particolare attenzione va riservata a questa classe di farmaci, nella quale rientrano il fentanil, il pregabalin e il tapentadolo, alla luce di quanto è successo negli Stati Uniti e in Canada dove si è parlato di una epidemia di persone dipendenti dai cosiddetti farmaci pain killer.

La prescrizione di oppioidi

L’uso degli oppioidi è ampiamente condiviso e accettato nel caso di malattia neoplastica avanzata, proprio perché il sollievo dal dolore ottenuto giustifica pienamente il rapporto rischio/beneficio della terapia a lungo termine con questa classe di farmaci. Diversamente, per altre condizioni cliniche, sia acute che croniche, quali ad esempio artrite, mal di schiena, dolore postoperatorio, dolore dentale, il loro uso è ancor oggi oggetto di controversie, così come anche l’impego della cannabis per fini terapeutici.

In Italia con la legge 8 febbraio 2001, numero 12, “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”, sono state introdotte modifiche sostanziali alla precedente normativa, al fine di garantire un più efficace trattamento del dolore nei malati terminali ma anche nei pazienti affetti da dolore severo cronico. Il provvedimento si rese necessario in quanto i medici non prescrivevano con facilità gli analgesici stupefacenti, stante la eccessiva rigidità di compilazione della ricetta e la previsione di sanzioni anche penali in caso di errori nella prescrizione. Ciononostante i dati forniti dall’Agenzia italiana del farmaco confermano una cautela nella prescrizione di questi farmaci, proprio per il temuto confine labile tra effetto antalgico e dipendenza.

Varcare il confine della sola scienza per avvicinarsi di più al paziente, anzi alla persona, dovrebbe essere non solo auspicabile ma concretamente messo in atto.

Per ciò che riguarda la cannabis, che non è un oppiaceo e sulla quale non vi sono evidenze robuste di dipendenza, almeno dal punto di vista fisico, si sottolinea che in Italia dal 2006 è possibile prescriverne preparazioni magistrali secondo le modalità previste dalla legge 94 del 1998. Con il decreto ministeriale del 9 novembre 2015 .  sono state stabilite una lista di patologie per le quali è consentito l’uso medico della cannabis, in modo da favorirne un utilizzo omogeneo su tutto il territorio nazionale. La prescrizione di cannabis terapeutica è possibile e a carico del Servizio sanitario nazionale per il dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla, oltre che a lesioni del midollo spinale; alla nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per hiv; come stimolante per l’appetito nella cachessia, in pazienti oncologici o affetti da aids e nell’anoressia nervosa; per l’effetto ipotensivo nel glaucoma; per la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette. I dati del Ministero della salute mostrano, anche in questo caso, una grande variabilità geografica, per cui ad esempio in Emilia-Romagna si concentrano il 25 per cento delle prescrizioni di cannabis terapeutica registrate tra il 2017 e il 2021 a fronte di valori inferiori al 3 per cento in Calabria e altre Regioni.

La soglia del dolore

Quale è quindi il confine che il medico stabilisce tra il sollievo della sofferenza e la prescrizione di farmaci, quali oppioidi e derivati della cannabis, che nell’immaginario collettivo sono solo droghe? Qual è il bilancio tra gli effetti positivi e i potenziali eventi avversi delle sostanze stupefacenti nel trattamento del dolore cronico non oncologico? Il problema forse sta nella soglia di accettazione di quanto dolore deve, nonostante tutto, sopportare chi ne è affetto. Tuttavia, il dolore che avverte il malato non è facilmente quantificabile e non esiste un valore soglia, un confine definibile per tutti. Se per prescrivere un farmaco a un paziente diabetico è sufficiente avere un valore soglia della glicemia, qual è il valore soglia per prescrivere un farmaco stupefacente con effetto antalgico? Per definire il valore soglia del dolore, il medico in genere si basa su una valutazione soggettiva del paziente, ovvero chiedendo direttamente al paziente di “quantificare” il dolore avvertito su una scala da 1 a 10.

Questa soglia, questo confine tra la necessità di prescrivere un farmaco stupefacente e la sofferenza, meriterebbe da parte di alcuni medici una maggiore attenzione, cercando di avere una visione più olistica della persona, sconfinando nella vita delle persone che non vanno quindi viste solo come pazienti.

Il dolore e la sofferenza che ne deriva impattano notevolmente sulla qualità della vita delle persone, riducendo la quantità ma soprattutto la qualità del sonno, aumentando l’ansia e talvolta inducendo sintomi depressivi, e non ultimo incidendo fortemente sulla vita attiva delle persone. Varcare quindi il confine della sola scienza per avvicinarsi di più al paziente, anzi alla persona, dovrebbe essere non solo auspicabile ma concretamente messo in atto.

 a cura della dott.ssa Antonella Camposeragna

Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio Asl Roma 1 -. pubblicato su Forward recenti progressi

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