Roma – ue coniugi (titolari del diritto di abitazione, ciascuno per il 50% indiviso), unitamente ai due figli (titolari della nuda proprietà, ancora ciascuno per il 50% indiviso) – acquirenti di un immobile a uso abitativo – presentavano ricorso avverso l’avviso di liquidazione e irrogazione sanzioni loro notificato, con cui l’ufficio delle Entrate di Bari recuperava a tassazione il maggior importo per Iva all’aliquota del 10%, oltre agli accessori.
L’atto impositivo veniva emesso a causa del rilevato mancato trasferimento della residenza nel comune ove era ubicato l’immobile, da parte di uno dei coniugi, entro i 18 mesi dal rogito, con conseguente decadenza dai benefici “prima casa” di cui al n. 21, Tabella A, parte seconda, allegata al Dpr n. 633/72.
I restanti acquirenti venivano ritenuti responsabili in solido col predetto.
La Ctp di Bari accoglieva parzialmente il ricorso rilevando che poiché uno dei due coniugi e i due figli avevano assolto l’onere di trasferire la propria residenza entro il termine di legge, la decadenza dal beneficio fiscale era illegittima nei loro confronti, mentre non altrettanto poteva dirsi nei confronti dell’altro soggetto rimasto inerte nel trasferimento della residenza.
Tutti i ricorrenti proposero appello avverso detta decisione la quale, comunque, venne confermata dalla Ctr della Puglia.
I giudici di secondo grado osservarono, in particolare, che correttamente la Corte di prima istanza aveva rigettato il ricorso del coniuge inadempiente poiché, secondo la giurisprudenza di legittimità, la condizione affinché l’altro coniuge non residente, possa comunque godere del beneficio di cui in parole, è che l’acquisto ricada nella comunione legale in quanto verrebbe in risalto il concetto di “residenza della famiglia”.
I contribuenti – rimasti parzialmente soccombenti nel giudizio di secondo grado – hanno proposto ricorso per la cassazione di quella pronuncia sulla base di un unico motivo con il quale è stata denunciata violazione e falsa applicazione degli articoli 143, 144, 1100 e 1022 del codice civile, nonché dell’articolo 1, nota II-bis, della Tariffa, parte prima, allegata al Dpr n. 131/1986, in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, codice di procedura civile.
Secondo l’impostazione adottata dai ricorrenti, l’acquisto dell’immobile era avvenuto in regime di comunione ordinaria sia quanto al diritto di abitazione (50% indiviso tra i coniugi) sia quanto al diritto di nuda proprietà (50% indiviso tra i figli).
In quelle condizioni, tenuto conto della particolare funzione del diritto reale parziario in discorso (l’articolo 1022 cc stabilisce che “Chi ha il diritto di abitazione di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”), diventa trascurabile che tra i coniugi fosse vigente il regime della separazione patrimoniale dei beni poiché gli effetti dell’acquisto di quel cespite immobiliare si sono estesi a tutti i componenti, per l’appunto, della famiglia.
Pertanto, il concetto di residenza deve poter coincidere, nel caso in discussione, con quello più esteso di famiglia, al contrario di quanto ritenuto dal giudice d’appello.
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
La Cassazione, con l’ordinanza n. 3123 del 2 febbraio scorso, ha rigettato il motivo di gravame così proposto poiché infondato condannando, altresì, le parti ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
In via preliminare, i giudici di piazza Cavour hanno richiamato la costante giurisprudenza della Corte sul punto, la quale afferma, in estrema sintesi, che “in tema di imposta di registro e dei relativi benefici per l’acquisto della prima casa, ai fini della fruizione degli stessi, il requisito della residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile va riferito alla famiglia, con la conseguenza che, in caso di comunione lega/e tra coniugi, quel che rileva è che l’immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo in contrario la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica in tale Comune, e ciò in ogni ipotesi in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che in caso di acquisto congiunto del bene stesso” (cfr Cassazione n. 22557/2022; conferma Cassazione n. 16604/2018 e n. 13335/2016).
Ovviamente, detto principio di diritto è estensibile all’Iva.
A detta dei ricorrenti, nella vicenda – in cui è risultato pacifico che l’acquisto del diritto reale di godimento, tra i coniugi, era avvenuta in regime di separazione patrimoniale – il diritto conseguente acquisito sarebbe da ricondurre nell’alveo del “diritto di abitazione” di cui all’articolo1022 cc a mente del quale, come detto, il titolare “può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”. In pratica, l’acquisizione del diritto da parte della moglie (soggetto che ha trasferito la residenza) accomuna la fattispecie suddetta a quella dell’acquisto in comunione legale in quanto – seppur vigente in concreto il regime di separazione – nella sostanza si sarebbe determinata un’originaria destinazione univoca e complessiva della destinazione dell’abitazione a residenza familiare (completata dall’acquisto del diritto di usufrutto da parte dei figli).
La Cassazione non ha inteso aderire a tale prospettazione in quanto la ratio della giurisprudenza appena richiamata è che, poiché l’acquisto in comunione legale si estende ex lege alla posizione dell’altro coniuge, a prescindere dal proprio personale apporto, anche finanziario, in tal caso rileva la posizione della famiglia in sé, cui occorre dunque riferire la verifica della residenza.
Il che rende sufficiente che anche uno solo dei coniugi rispetti il requisito soggettivo della residenza nel comune del luogo in cui si trova l’immobile oggetto di compravendita.
Nel caso in esame, invece, l’acquisto del diritto assume una prerogativa per così dire “egoistica” (o “individualistica”) in capo a ciascuno dei coniugi, e i bisogni della famiglia non sono riferiti al diritto del nucleo familiare in quanto tale.
A quest’ultimo si attribuisce rilevanza in via indiretta, cioè per il tramite del titolare del diritto di abitazione, che resta il “protagonista” della fattispecie.
Pertanto, la Cassazione, con la pronuncia in esame, non ha inteso discostarsi dal consolidato indirizzo prima evocato, neanche in relazione alle peculiarità offerte dalla vicenda controversa portata al suo diretto vaglio.