Affitto a costo irrisorio d’azienda: è sintomo di condotta fraudolenta

Per la configurabilità del delitto, è sufficiente il compimento di atti che, nell’essere diretti a ostacolare l’azione del Fisco, si caratterizzino per la loro natura simulatoria

Roma – Ai fini del sequestro preventivo, sussiste il fumus del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte anche in caso di fitto d’azienda, qualora dal compendio indiziario emerga la natura sospetta dell’operazione, dimostrata dal fatto che mediante l’affitto di azienda la società è stata privata dei suoi beni produttivi di utili durante la durata dell’affitto, rispetto a un canone ritenuto irrisorio in confronto a essi
Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza 7041 del 20 febbraio 2023 con cui ha rigettato il ricorso del legale rappresentante di una srl.

La vicenda processuale
La vicenda parte dal provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Bergamo nei confronti del legale rappresentante di una srl, in relazione al reato di cui all’articolo 11 del Dlgs n. 74/2000. All’uomo veniva contestato nello specifico di avere alienato simulatamente i beni della società di cui era legale rappresentante, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte scaturenti da precedente attività di controllo. L’indagato aveva affittato il ramo di azienda relativo all’intera attività economica svolta dalla società (distributore di benzina e bar) a una compagine neocostituita per un canone mensile di 2mila euro, spostando di fatto l’intero fatturato alla nuova società. Il sequestro era stato disposto, in via diretta, sui beni della società ovvero, in caso di incapienza, per equivalente nei confronti di beni di proprietà o anche solo nella disponibilità del legale rappresentante fino alla concorrenza del valore dei canoni percepiti in forza del contratto di affitto di azienda.
Il tribunale del riesame confermava la misura cautelare ritenendo sussistenti i presupposti del periculum e del fumus.

Avverso tale provvedimento, il legale dell’uomo e della società proponeva ricorso per cassazione, denunziando, tra l’altro, violazione del predetto articolo 11. In particolare, veniva contestata la sussistenza del reato in quanto, con il contratto di affitto di azienda, i beni sarebbero, comunque, rimasti di proprietà della società e, quindi, sarebbero stati aggredibili dall’Erario. Inoltre era erroneo anche il riferimento, effettuato dal Tribunale del riesame, di dover esperire l’azione revocatoria; nel caso di contratto di affitto di azienda l’Erario potrebbe direttamente aggredire i beni del beneficiario senza necessità di tale azione; non sarebbe stata pregiudicata l’attività di riscossione dell’amministrazione finanziaria.

La pronuncia della Cassazione e ulteriori osservazioni
Nel rigettare il ricorso, la Cassazione ricorda che l’articolo 11 del Dlgs n. 74/2000 sanziona chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte, per un ammontare complessivo superiore a 50mila euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Ai fini della configurabilità del reato, non è sufficiente la semplice idoneità dell’atto a ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario, essendo invece necessario il compimento di atti che, nell’essere diretti a questo fine, si caratterizzino per la loro natura simulatoria o fraudolenta.

L’alienazione può definirsi “simulata”, ossia finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, allorquando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) all’effettiva volontà dei contraenti, con la conseguenza che, ove invece il trasferimento del bene sia effettivo, la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato, ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile “atto fraudolento”.

Quanto alla nozione di “atti fraudolenti”, devono ritenersi tali tutti quei comportamenti che, quand’anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione (cfr Cassazione, pronunce nn. 29636/2018 e 25677/2012).

Sulla questione specifica la giurisprudenza ha già affermato che il reato ex articolo 11, Dlgs n. 74/2000 si può concretizzare con l’affitto di azienda, ove risulti che si tratti di un atto fraudolento (cfr Cassazione, pronuncia n. 40319/2016). Secondo tale arresto, la natura del delitto in esame come fattispecie di pericolo non impone che dall’atto apparentemente dispositivo consegua una effettiva erosione nell’area di garanzia dei crediti erariali costituita dal patrimonio del debitore, essendo sufficiente che si determini la semplice probabilità, da valutare al momento del compimento dell’atto stesso, che l’attività recuperatoria dell’Amministrazione finanziaria possa essere impedita (cfr Cassazione, pronuncia n. 20371/2021).

Nel caso concreto, la natura fraudolenta dell’operazione era desunta dal fatto che la gestione dell’azienda era ancora appannaggio dell’imputato. Mediante l’affitto si era determinato unicamente l’effetto di svuotamento del patrimonio societario: la società ricorrente è stata privata dei suoi beni produttivi di utili, durante la durata dell’affitto, rispetto a un canone ritenuto irrisorio rispetto a essi.

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