Questa musichetta che la radio spara in continuazione è la colonna sonora dei Giochi dell’America Centrale e dei Caraibi, non un tormentone, lo capirò più tardi, davanti a un Wi-Fi, ma di sicuro mi è entrata completamente in testa in queste ore passate all’aeroporto di El Salvador. Il taxi guidato da una donna nella notte dell’autostrada è stata la prima grande sorpresa, poi è venuto il trasferimento in scorta da un gate all’altro ai due estremi del terminale per non farci rifare i controlli di sicurezza.
E ora c’è un volo Avianca che stranamente non ci spaventa per nulla, l’atterraggio stavolta sarà standard in un giorno di sole come tanti altri a queste latitudini. Confessa: la tua preoccupazione è un’altra! Servirà il prechequeo anche per il Nicaragua? No, ti hanno fatto imbarcare senza e l’agenzia via e-mail non ha nemmeno risposto alla tua domanda al riguardo. Però vorranno vedere il green pass, questo lo so per certo: uno dei pochi paesi rimasti a chiederlo. Ho anche la lista completa di tutti i miei vaccini dal fascicolo sanitario di Regione Lombardia, all’occorrenza.
Serve una banconota da dieci dollari per la carta turistica, questo non lo sapevo, per fortuna in banca me ne hanno date tante di quel taglio. E bisogna compilare il modulo due volte, che stress questa inutile burocrazia socialista! Mantengo la calma, rispondo a ogni richiesta reiterata, quanti giorni, dove, perché, e alla fine il rumore inconfondibile del timbro mi regala un’altra grande ventata di felicità. No, il modulo della quarantena lo richiedono solo ai tanti africani arrivati con il mio volo, tu scansati, stupido.
Il taxi che hai prenotato fuori c’è, tra le palme. Te l’avevano scritto, su Booking, di stare tranquillo. Ammetto di essere stanco: la durata ideale dei miei viaggi ormai è una settimana, ma quando c’è da fare una nuova bandiera l’entusiasmo torna in fretta, a maggior ragione se parliamo di un paese che abbiamo già sfiorato con le intenzioni in passato, le guide in italiano riposte in qualche cassetto nascosto. E adesso e qui, tra l’altro lo sapevo che avrebbe fatto questa strada industriale, mi rendo subito conto di una statistica appena letta: la popolazione Nica è molto urbanizzata, nelle campagne dominano le coltivazioni. Vulcani, naturalmente. E nessuna bandiera esposta, se non parificata da quella rossonera del Fronte Sandinista.
Masaya che dorme culturalmente, Masaya base per le escursioni, Masaya e il mercato con i prodotti del legno: niente da fare, la tangenziale della città spegne la mia labile curiosità. Ma resta pur sempre la seconda grande gemma coloniale del mio itinerario: Granada, che non è quella dell’Alhambra e del Flamenco, ma che penso possa avere qualche freccia in grado di colpirmi, mentre già schivo quelle della rotonda monumentale in ingresso, dello stadio del baseball, del vecchio ospedale lasciato in rovina.
Parque Central, si comincia sempre da qua, dal cuore della città: un’oasi di alte palme verdi, morbidi prati erbosi, carrozze variopinte che percorrono dolcemente le strade. Quasi quasi potrebbe essere l’occasione per un caffè e un panino nella pace di questo spettacolare giardino vissuto dagli abitanti del loco, ma la frenesia chiama sempre la tappa successiva: l’immagine stessa di Granada, ossia la sua Catedral giallissima di neoclassicismo esemplare.
E ora dove vado? Scotterà troppo l’asfalto per mantenere la promessa che ho fatto alla receptionist? Quando non hai preoccupazioni, è bene procurartene di nuove, solo così può funzionare. Ma non cadremo prigionieri qui: c’è tutta La Calzada da percorrere tra gli hotel recuperati a un fascino da belle epoque, i cortili interni delle caffetterie porticate, le pareti verniciate di verde di un pub irlandese che ha chiuso, il profilo turrito della chiesa di Guadalupe. E poi quel Paseo de los Mangos che sembra più un giardino botanico, panchine ordinate che accompagnano il tratto terminale dello sfiatatoio verso il grande bacino lacustre del Malecón. Nachos, direi, ora, mentre le mie riflessioni all’aria calda di una brezza appena accennata passano dai prezzi bassi alla presenza dei turisti, dai ristoranti vegani alle case appartamento, che questa volta non sono riuscito a non farmi cambiare il dollaro nei córdoba. Se non altro così posso recuperare un altro punto di forza imprescindibile: il museo convento di San Francisco, uno spazio in cui la storia del paese sembra congelata alle pareti, con il bonus del giardino delle colonne in rovina.
Oggetti in ceramica usati dagli indigeni, sculture scolpite nelle pietre trovate sull’isola di Zapatera e soprattutto una raccolta memorabile di pittura primitivista di quell’orgogliosa origine contadina che mai ha frequentato i tradizionali centri accademici delle grandi città: cervi, tucani, cerbiatti, strade di pavé e tuniche colorate. Ora sì, è tempo di infilarsi in un pertugio affollato dai riflessi delle attività quotidiane e osservare i pensionati che aprono la loro bottiglia di rum locale: io ci arriverò dopo, per ora mi basta una Toña da 33 ml, anche se la bandiera non mi ha ancora rivestito, che un’icona vale l’altra e alla fine il simpatico cameriere troverà per me anche una sigaretta in mezzo ai tatuaggi e ai cappelli dei turisti americani.
Laterali, arrivo, con calma, facendo un passo dopo l’altro, addormentando il pomeriggio ai ritmi locali: solo alla fine trovo il coraggio di accelerare, raggiungere la splendida Iglesia de la Merced e offrire il mio dollaro per vincere la paura salendo gradini a chiocciola fino al panorama sterminato di tutti questi dettagli architettonici amati. Come dite? Finalmente quesillos? Sì, in un posto popolare, tra le coppiette giapponesi e le compagnie di ragazzi del posto, perfettamente in tono con la mia prima splendida idea di Nicaragua.