Roma – Le risultanze del giudizio penale, cristallizzate nella sentenza, possono essere prese in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, che, tuttavia, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui opera la sentenza stessa e dovendo, comunque, effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio.
Con le sentenze 2120, 2115 e 2133 del 2024, la Corte di cassazione ha fornito interessanti spunti in merito al rapporto tra giudizio tributario e giudizio penale, in relazione a una vertenza che ha avuto anche un’eco mediatica, vista la rilevanza degli importi contestati e il coinvolgimento di imputati noti in ambito locale, ovvero un imprenditore, due avvocati e un giudice onorario di Tribunale.
La vicenda trae origine da un processo penale per bancarotta fraudolenta per distrazione, bancarotta fraudolenta documentale e abuso d’ufficio che, dopo alcune condanne, si è concluso in cassazione con l’assoluzione in relazione al primo capo di imputazione e la prescrizione per il secondo e il terzo, ma, comunque, con la condanna alla restituzione quale conseguenza civile delle condotte integrative del reato di abuso d’ufficio, dichiarato estinto per prescrizione.
L’Agenzia delle entrate ha, quindi, recuperato a tassazione in capo agli imputati il provento illecito (ripartendolo in quote uguali da imputare a ciascuno dei concorrenti nel reato) ai sensi dell’articolo 14, comma 4, legge n. 537/1993, sebbene, in via diretta, detto profitto fosse stato incamerato da una società estera utilizzata come “paravento”.
La Ctr ha, però, accolto i ricorsi dei contribuenti perché, sebbene fosse incontestabile la percezione delle somme da parte della società estera, dall’esito finale del processo penale non sarebbe emersa la prova della percezione delle relative somme da parte degli imputati. Inoltre, la condanna civile degli imputati, a parere dei giudici di secondo grado, avrebbe avuto carattere risarcitorio più che restitutorio.
L’Agenzia delle entrate ha, quindi, proposto ricorso per cassazione.
Con il primo motivo di ricorso l’Amministrazione ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 654 e 116 cpc, con riferimento alla parte della sentenza in cui è stato ritenuto che i contribuenti non fossero assoggettabili a imposizione in base agli esiti (parzialmente assolutori, quanto ad alcune imputazioni) del giudizio penale, anziché procedere a una compiuta valutazione dei fatti e in violazione dei consolidati principi in tema di estensione degli effetti delle sentenze penali nel giudizio tributario.
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’articolo 185 del codice penale, l’Agenzia ha censurato la sentenza nella parte in cui aveva attribuito rilievo alla statuizione d’appello – ritenendovi affermato un obbligo risarcitorio e non restitutorio come in apparenza – al fine di escludere che i contribuenti avessero effettivamente percepito l’importo poi ripreso a tassazione.
Con il terzo e il quarto motivo, l’Amministrazione finanziaria ha lamentato la scorretta valutazione del materiale probatorio da parte dei giudici, composto dagli elementi addotti a sostegno degli atti impositivi e da quelli desumibili dalle sentenze penali, avuto riguardo al fatto che, nel caso specifico, le presunzioni offerte erano idonee a consentire la prova della sussistenza di un maggior reddito imponibile in capo ai contribuenti.
La Corte suprema ha ritenuto il ragionamento della Ctr. non rispettoso delle concrete emergenze processuali e contrastante con i principi che regolano il riparto dell’onere probatorio.
In particolare, la Corte definisce illogica la tesi secondo la quale vi sarebbe stata una locupletazione della sola società, di per sé soggetto autonomo sotto il profilo giuridico e patrimoniale: la conseguenza più logica dell’articolata sequenza di condotte posta in essere dai concorrenti nel reato – sfociata nel trasferimento di un’ingente somma di denaro a una società estera – ha come conseguenza più logica il fatto che tale somma fosse poi destinata a rifluire nella disponibilità personale dei soggetti coinvolti. Tanto più se si considera che i giudici penali hanno condannato gli imputati a restituire un importo corrispondente alla somma distratta, dal che si deduce che proprio tale somma costituiva il profitto del reato accertato.
In ogni caso, secondo la Corte di legittimità, i giudici regionali non hanno tenuto conto degli elementi che l’ufficio aveva evidenziato mediante il richiamo ad alcuni passaggi delle sentenze penali, che facevano esplicito riferimento al fatto che le utilità derivate alla società “paravento” comportarono in via automatica il conseguimento di un ingiusto profitto da parte degli imputati.
Inoltre, e più in generale, la Cassazione ha ricordato come alla sentenza penale irrevocabile – sia essa di condanna o di assoluzione – non può essere riconosciuta alcuna automatica autorità di cosa giudicata, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli uffici finanziari; ciò in quanto nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall’articolo 7, comma 4, del Dlgs, n. 546/1992, e trovano ingresso, in particolare, anche presunzioni semplici, che di per sé sarebbero inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.
Pertanto, le risultanze del giudizio penale, cristallizzate nella sentenza, possono essere prese in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata a operare, essendo comunque tenuto a procedere a un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio.
Nel caso in esame, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza della Ctr con rinvio, essendosi i giudici di secondo grado limitati a recepire il contenuto della sentenza penale, senza svolgere alcun altro apprezzamento del complessivo materiale indiziario sottoposto alla loro attenzione, per parte ricavabile dagli stessi atti del giudizio penale.
La statuizione della Corte suprema è espressione della costante giurisprudenza di legittimità relativa ai casi in cui il contenzioso tributario tragga origine da fatti che sono stati anche oggetto di accertamento in sede penale. Occorrerà valutare l’impatto che potranno avere sull’argomento la modifica dell’articolo 7 Dlgs n. 546/1992 da parte della legge n. 130/2022 e, soprattutto, la futura attuazione dell’articolo 20 lettera a) n. 3) della legge delega n. 111/2023, ove si prevede di “rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i princìpi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi”.