Costi indeducibili in società ristretta, distribuzione di utili presunta

I soci, chiamati a rispondere della maggiore imposta accertata, possono fornire prova contraria che gli importi sono stati accantonati in una riserva o reinvestiti nell’attività sociale

In tema di reddito d’impresa, l’indicazione di costi che, pur essendo stati effettivamente sostenuti, sono indeducibili, implica un inevitabile incremento della base imponibile e, quindi, un maggior utile non dichiarato. Tale circostanza, in caso di società a ristretta compagine sociale, rende operativa la presunzione di distribuzione degli utili ai soci. Di conseguenza, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a recuperare la maggiore imposta sia nei confronti della società che nei confronti dei soci.

Questi principi sono stati espressi dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 25559 del 24 settembre 2024.

La vicenda processuale è nata a seguito di un avviso di accertamento mediante il quale è stato rettificato il reddito d’impresa dichiarato da una società a responsabilità limitata.

L’atto di accertamento è scaturito in quanto i costi sostenuti dalla società nell’anno oggetto di controllo, sono stati disconosciuti a causa della mancata esibizione della relativa documentazione contabile.

La notifica dell’atto impositivo è stata effettuata sia nei confronti della società, che nei confronti del socio di maggioranza, titolare di una quota di partecipazione del 98%.

I provvedimenti sono stati impugnati dal contribuente, sia in proprio che nella sua qualifica di legale rappresentante della società.

Nel corso del giudizio di primo grado la parte, dopo aver affermato che, a seguito della chiusura dell’attività sociale, avvenuta alcuni anni prima, gran parte della documentazione contabile era stata smarrita, ha contestato l’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili ai soci.

Sia il ricorso della società che quello del socio sono stati respinti dalla Ctp di Foggia, con sentenza n. 79 del 6 febbraio 2013.

Avverso tale sentenza è stato proposto appello limitatamente all’accertamento notificato al socio di maggioranza.

In sede di appello la parte ha contestato il comportamento dell’ufficio ritenendo che dal mancato disconoscimento dei costi dichiarati dalla società, non può derivare automaticamente l’imputazione di tali costi al socio, sotto forma di utili.

In pratica, secondo la parte, i costi sostenuti dalla società, anche se ritenuti indeducibili, rappresentano esborsi di denaro e, quindi, non possono essere assimilati a somme distribuite ai soci.

La Ctr della Puglia (decisione n. 745 del 25 marzo 2016) ha accolto la tesi esposta dal contribuente, ritenendo fondata l’eccezione relativa alla presunzione di distribuzione di utili extra bilancio ai soci. Secondo i giudici regionali, il maggior utile emerso in sede di accertamento era solo apparente poiché, a fronte di ricavi dichiarati, gli esborsi erano da considerare effettivamente sostenuti, anche se non erano stati documentati.

La Corte di cassazione ha, invece, ritenuto legittimo l’operato dell’Ufficio, richiamando:

l’orientamento, già espresso dall’ordinanza n. 10679/2022, secondo il quale “…l’indeducibilità di costi effettivamente sostenuti comporta un inevitabile incremento dell’imponibile e genera un maggior utile, non contabilizzato, al quale non può che applicarsi la presunzione di distribuzione degli utili, in virtù della ristretta compagine sociale”;

  • il principio di diritto già affermato con la pronuncia 15895/2020, per effetto del quale “…i costi, come i maggiori ricavi non dichiarati, possono essere assunti nella determinazione del quantum degli utili extracontabili presunto come distribuito tra i soci della società a ristretta base partecipativa.

I giudici hanno, comunque, riconosciuto che, di fronte alla legittima presunzione di distribuzione di utili, il socio ha la possibilità di fornire una prova contraria, dimostrando che, nel caso specifico, gli utili non sono stati distribuiti ma sono stati accantonati dalla società in una riserva, oppure sono stati reinvestiti per lo svolgimento dell’attività sociale. Nel caso di specie non era stata fornita alcuna prova in merito.

Ai fini della decisione, è stato rimarcato che nelle società, anche di capitali, caratterizzate dalla ristrettezza dell’assetto societario, sussiste “…un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria.

In queste situazioni sussiste, quindi, una sorta di complicità tra i soci, in base alla quale deve presumersi la distribuzione di utili in loro favore, nel corso dello stesso esercizio nel quale gli utili sono prodotti.

Al riguarda la Corte di cassazione, già con l’ordinanza n. 22447 del 2022 aveva affermato che “l’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci, pure in assenza di un’espressa previsione normativa a riguardo, quale quella contenuta nell’articolo 5, comma 1, d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 per le società di persone, non può ritenersi «illogica […] stante la complicità che normalmente ha avvince un gruppo così composto e l’appartenenza del patrimonio sociale degli stessi utili, come per tutte le società, proporzionalmente soci» (così, Cass., 31/03/2021, n. 8903). La ratio di tale principio si fonda, infatti, sulla circostanza del dato di esperienza che nella generalità dei casi a tali società di capitali sono composte da soci legati da rapporti di coniugio o di stretta parentela venendosi in tal modo a generare un elevato grado di compartecipazione degli stessi alla gestione della società e al reciproco controllo tra i soci medesimi.”

Sulla base di queste motivazioni è stato, quindi, accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle entrate.

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